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lunedì 11 novembre 2019

amy

forse avrebbe potuto essere solo amy al ronnie scott di soho a cantare jazz per pochi. non credeva di poter vivere di musica, pensava di dover accompagnare la carriera con un altro lavoro, da cameriera. di musica ha potuto vivere, invece, ma il sistema musica, su una ragazza fragile e ribelle, ha agito da folle detonatore, portandola alla morte a soli ventisette anni.

non mi stancherò mai di ripetere quanto apprezzo la collana per aspera ad astra di hop! edizioni, questa bellissima raccolta di biografie così incredibili da sembrare inventate per essere messe su carta, e invece... e invece è tutto vero, le donne di cui lorenza tonani - l'autrice di tutti i testi - ci racconta insieme alle bravissime illustratrici che l'accompagnano di volta in volta sono esistite, esistono ancora, poco importa in quali anni abbiamo vissuto o in quali paesi: ragazze che hanno attraversato momenti difficili, dolorosi, che sono vissute in penombra e che grazie ai loro talenti, alla loro incredibile voglia di andare avanti, sono arrivate alle stelle, splendenti anche loro e capaci di abbagliarci già solo quando sentiamo il loro nome.

in una collana così, poteva forse mancare amy winehouse? un'artista che a ventiquattro anni aveva già ottenuto quello che altri cantanti non raggiungono in una vita intera, che ha colpito per la sua musica, la sua voce, i suoi testi tanto quanto per la sua vita privata, il suo stile, i suoi amori, il suo corpo, tutto quello su cui chiunque crede di essere in diritto di mettere becco, sopratutto se sei una donna.


insieme ai pastelli di liuba gabriele, che sanno combinare la dolcezza e la delicatezza del colore con la sicurezza del tratto e che già così raccontano tanto di amy, lorenza tratteggia la storia di una bambina che faceva di tutto per essere al centro dell'attenzione, per farsi notare e amare da chiunque. insofferente alla scuola, sapeva di avere un talento che nessuna lezione di letteratura o di geografia poteva aiutarla a sviluppare, amy scappava dalle regole con una frenesia che col senno di poi fa quasi paura: a dodici anni, quando già il padre che adorava aveva divorziato da sua madre lasciandole dentro un vuoto enorme che colma con la musica e con i suoi sogni, decide di prendere in mano le redini della sua vita e riesce a vincere una borsa di studio per la sylvia young theatre school, senza nemmeno avvisare prima i suoi genitori. nemmeno qui va benissimo però, le materie tradizionali continuano ad esserci anche qui e lei continua a essere tutto fuorché una studentessa modello, ma inizia i suoi primi lavori e poco tempo dopo essere riuscita a concludere, anche se faticosamente, il suo percorso scolastico, registra il suo primo disco con cover jazz, quei brani che aveva imparato ad amare grazie anche alla nonna cinthya.
da questo momento in poi la strada di amy sembra non poter andare che verso un futuro di successi sfolgoranti: canta, suona, esplora nuovi generi, si fa notare da produttori e altri musicisti, compone e sopratutto inizia a fare della musica il suo vero lavoro, quello che le permette di andare a vivere da sola, ancora minorenne.
il successo è sancito con l'uscita del primo album, frank, ma comincia a intravedersi qualche ombra: i suoi produttori non vogliono ancora correre il rischio di lanciarla in america e sopratutto amy non riesce a dare il massimo ai concerti, non le piace cantare davanti al grande pubblico.

la storia successiva è segnata sopratutto dal personaggio-amy: il suo modo di fare scorretto e provocatorio, la sua pessima relazione con i giornalisti e sopratutto il suo abuso di alcool, che finisce sulla bocca di tutti quando diventa evidente che la sua dipendenza la mette costantemente in pericoli ben più seri che una brutta figura durante un'intervista.
la travagliatissima e devastante storia d'amore con blake, il più importante dei suoi amori e il tipo di persona peggiore che una ragazza fragile come amy potesse incontrare, segna il punto di non ritorno: la storia tra i due ha alti e bassi che sono sempre esageratissimi e incidono sulla sua salute mentale e fisica. da questo percorso nascerà poi l'album che la consacra definitivamente al successo, back to black, e insieme nascerà con lui una nuova amy, con un look che fa di lei una vera e propria icona, che completa, con la sua voce e la sua storia, quello che serviva a farne un mito immortale.
nonostante il trionfo, il successo mondiale, i milioni di copie vendute e le infinite possibilità che si aprono davanti a lei, amy, indomabile, continua a mostrarsi ubriaca agli show, ad alternare concerti memorabili con altri in cui a malapena biascica qualche parola.
conquista il mondo ma continua a distruggere se stessa, tra disturbi alimentari, abuso di droghe e alcool e l'immancabile presenza di blake, che continua a essere tanto indispensabile per lei quanto deleterio.
la fine della storia, nel luglio del 2011, la conosciamo già: in pochissimi anni amy è riuscita a stravolgere il mondo della musica, a diventare qualcosa di molto di più di una star mondiale ma non è riuscita a stare al passo con se stessa, a saper andare alla stessa velocità del suo talento e delle sue straordinarie capacità.


nel giorno in cui avrebbe compiuto ventotto anni esce il terzo album, postumo, lioness: hidden treasures. di quella ragazza troppo sincera, fragile, insicura e irrequieta, attaccata e costantemente giudicata dai media per il suo modo di vivere, è rimasto al mondo il ritratto di una grande artista, una piccola, giovane ragazza bianca di londra con la voce nera di una cantante jazz e una mente brillante capace di scrivere testi indimenticabili.

lunedì 1 aprile 2019

carnaio

quando se ne va l’umanità, anche il vero diventa un lusso: non è per ignoranza, come potrebbe sembrare, ma per un rimescolamento avvelenato delle priorità.

seguo giulio cavalli da poco, non lo conoscevo fino a qualche mese fa.
ho iniziato ascoltando i suoi podcast e leggendo gli articoli, quindi quando ho iniziato a trovare in giro le recensioni di carnaio, evitando il più possibile gli spoiler, mi sono detta che dovevo assolutamente leggerlo, sapevo che non ne sarei rimasta delusa.
e infatti.

carnaio è un libro potentissimo, uno di quei racconti che ti rimangono dentro, ti fa immaginare le scene che descrive come se fossero pezzi di un film o stralci di un telegiornale.
sì, esatto, di un telegiornale.
perché nulla è più spaventoso di quello che si trova ad appena un passo dell'orrore che vediamo ogni giorno e a cui ci stiamo abituando, nulla di più spaventoso se non li fatto che ci stiamo abituando, che bisogna darsi uno schiaffo per non cadere nella tentazione di pensare con leggerezza oh, un'altra volta, per non cedere ai toni monocorde degli speaker che contano i morti, giorno dopo giorno.
c'è chi ironizza, chi addirittura festeggia a queste notizie.
non è facile riconoscere il limite tra la realtà è l'invenzione a volte. o meglio: a volte vorremmo questa confusione per credere che non sia possibile tanto orrore.
e forse il merito più grande di giulio in questo libro è sottolineare quanto l'orrore sia banale e vicino a noi e comprensibile e, nel peggiore dei casi, persino condiviso.
l'orrore dell'abitudine, dell'indifferenza, della mancanza di empatia.
l'orrore di chi usa le tragedie degli altri, deumanizzandoli all'estremo, per il proprio interesse.
vi ricorda qualcosa?

protagonista della storia di carnaio è l'intero paese di df, un ipotetico paese di pescatori del sud italia, abitato da gente normale, da brava gente, quella che pensa alla famiglia, al lavoro, al futuro dei figli, ognuno con i suoi piccoli segretucci, nulla di che, roba che in fondo non fa male a nessuno.
gente come noi.
un giorno giovanni ventimiglia, pescatore da qualche anno in crisi per colpa di un mare sempre più avaro di pesce, trova un cadavere mentre attracca la sua barca al molo.
un ragazzo nero, giovane, alto, in salute. un cadavere lavato dal mare, chissà da quanto tempo lasciato a marinare nell'acqua salmastra, chissà da dove arriva ché non si è saputo di nessun naufragio.
una bella rogna per giovanni, che deve perdere tempo al commissariato e non arriva a vendere il pesce in tempo quel giorno al mercato. e poi sorbirsi pure i rimproveri - meritati, certo - di sua moglie

nei giorni successivi i cadaveri si trovano sempre più spesso, sempre più numerosi.
sono tutti uguali: maschi, neri, giovani, tutti più o meno la stessa altezza, più o meno lo stesso peso, più o meno lo stesso tipo di vestiti, niente documenti, nessuna storia, tutti sbiancati dall'ammollo.
sono fastidiosi questi cadaveri che spaventano i turisti e creano disagio ai cittadini, fanno paura tutti così uguali.
e poi, a un certo punto, i cadaveri cominciano ad arrivare a ondate.
letteralmente.
centinaia, invadono le strade, i giardini, le piazze, schiacciano la gente. tonnellate di carne, corpi fatti quasi con lo stampo, carne senza nome e senza storia, carne che con prepotenza decide di riempire il tranquillo paesino di df sconvolgendone la vita.

quello che succede a df è tanto abominevole da torcervi lo stomaco senza nemmeno preoccuparsi di aprirvi la pancia, una bella telestrizzata: nessuna domanda su chi siano, da dove vengono, perché sono così tanti, come sono morti, cosa si può fare per aiutarli, nulla.
non importa a nessuno, non sono neppure umani - e il particolare di dare a tutti caratteristiche fisiche così poco realisticamente uguali è una delle metafore più crudeli e forse più riuscite di tutto il romanzo - agli occhi degli abitanti di df, preoccupati solo del loro angolo di cortile.
le energie si concentrano tutte prima su come difendersi da quest'invasione di carne frollata dal mare.
e poi come farne profitto.
df, tranquillo paesino sulla costa, abitato da pescatori e gente comune, ognuno con la sua vita banale e comune diventa, nel giro di poco, l'inferno. si trasforma un posto orrendo dove le leggi della più basilare civiltà e umanità vengono sopraffatte dalla bieca necessità, dall'opportunismo, da un nuovo sistema organizzato nel nome del cinismo, della dicotomia noi/loro, dove quel loro non vale niente.

sono tante le voci che raccontano la storia, le voci degli abitanti di df.
solo a una di loro - flebile, piccola, impotente - è affidato barlume di umanità:
quello che voglio è non diventare come loro, con tutte le mie forze. mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia.
questo libro è prezioso, tremendo, importantissimo, doloroso, necessario. fatevi forza e leggetelo, scoprirete che la differenza tra l'orrore che ci distrugge, quello abilmente narrato, e quello che ormai siamo abituati a sentire, quello asettico della cronaca, non è affatto così netta.

lunedì 4 febbraio 2019

jane

jane austen è considerata una delle più grandi scrittrici al mondo, il suo successo è planetario, la sua fama universale, la sua ispirazione sempre viva. oggi. eppure jane, vissuta in inghilterra a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e morta a soli quarantuno anni, non ha goduto di fama in vita.

jane austen non è la prima e di certo non sarà l'ultima di quelle grandi personalità che devono aspettare che passi abbastanza tempo dal loro funerale prima che il loro valore venga riconosciuto.
artisti che oggi sono nomi fondamentali per la nostra cultura e che non hanno fatto in tempo a scoprirlo ce ne sono in quantità imbarazzante, e a volte c'è da impazzire all'idea che quelle che sono delle vere e proprie icone per noi, sono state tanto sottovalutate, se non disprezzate, dai loro contemporanei.

la collana per aspera ad astra di hop! edizioni, che raccoglie le biografie di donne straordinarie, scritte da lorenza tonani (qui l'intervista a lorenza) e illustrate da artiste contemporanee, non poteva non dedicare un volume proprio a jane, una delle scrittrici più amate e conosciute di sempre. oggi, appunto, perché in realtà la vita della austen non fu affatto una collezione di glorie e successi, nonostante, come lorenza analizza nel volume, sia stata a tutti gli effetti una silenziosa ma potentissima rivoluzionaria.

settima di otto figli, nata e vissuta in una famiglia borghese, jane ha vissuto una vita modesta e tranquilla, circondata dagli affetti della sua numerosa famiglia (la chiamiamo ancora zia jane proprio per via dei suoi numerosissimi nipoti), non si è mai sposata, ma, da attenta osservatrice quale è della società in cui vive, conosce benissimo l'importanza - praticamente assoluta - che il matrimonio ha per le donne, e la diverte osservare i meccanismi complicati ed evidentissimi che regolano questo gioco fatto più di soldi e interesse che di sentimenti.


la vera rivoluzione di jane non è certo rifiutare un matrimonio: non fa mai nulla di troppo eclatante nella sua vita, non c'è rabbia né sensazionalismo nelle sue scelte, anzi: è una ragazza tranquilla le cui uniche passioni sono i libri, la scrittura, i balli e le passeggiate, probabilmente agli occhi di molti non è che una ragazza come tante, forse solo incapace di scegliersi un buon partito per marito.
è nei suoi racconti, e attraverso le sue protagoniste, che la austen compie qualcosa di assolutamente fuori dalla norma: in una società in cui il matrimonio è un destino imposto, la fine di un gioco fatto di calcoli sui patrimoni, i titoli, le reputazioni delle famiglie, in cui le donne hanno davvero poca possibilità di scelta e possono al massimo augurarsi che non vada a finire troppo male, jane fa scegliere alle sue protagoniste di agire solo sulla base dei loro sentimenti, pensando, più che al benessere economico, alla possibilità di essere felici e padrone - entro dei limiti piuttosto stretti - del proprio destino.
le eroine dei suoi volumi, grazie al buon senso e all'intelligenza, vivono una sorta di educazione sentimentale che permette loro di rimodulare la propria interiorità, divenire donne di "ragione e sentimento", che aggirano le convenzioni sociali e mirano a un buon matrimonio che non sia però privo di amore. la conoscenza e l'esperienza si sostituiscono all'obbligo di aderire a una scelta familiare, a una sorte già decisa.
e le eroine di jane infatti non agiscono mai da sole: nei suoi romanzi la austen mostra dei piccoli universi familiari, microcosmi in cui si riflette il funzionamento dell'intera borghesia inglese: ragnatele di pettegolezzi, occhiate, incontri più o meno fortuiti, feste, balli, passeggiate, visite ai vicini, sempre in compagnia di sorelle, madri, zie, amiche e vicine di casa, tutte - sono sopratutto le donne ad agire in questi casi - intente a favorire questo o quel fidanzamento, a suggerire un buon partito, a sperare in una proposta di matrimonio.
jane sa dipingere, pagina dopo pagina, storia dopo storia, un ritratto ironico ma mai cattivo di una società che vortica costantemente attorno a un unico problema: assicurare alle proprie figlie, attraverso un'unione conveniente, il benessere economico e la rispettabilità sociale, senza mai tenere in conto i sentimenti dei due diretti interessati.


proprio l'analisi delle opere di jane, del suo stile, delle sue tematiche preferite è la parte più affascinante di questa biografia illustrata. lorenza tonani intreccia i fatti della scrittrice con quelli legati alla scrittura, ma in effetti non sarebbe possibile discernere l'una dall'altra: il mondo di jane si riflette delle sue opere tanto quanto queste si nutrono della realtà.
i capitoli si focalizzano tanto sugli eventi strettamente biografici più importanti quanto sul carattere, sulle passioni e sulle opere di jane.

le illustrazioni sono di anna - ninamasina - masini, designer, illustratrice e fondatrice di red boots, etichetta di libri illustrati autoprodotti.
in ogni pagina, con uno stile delicato e ricco di dettagli, racconta la vita di jane, i suoi luoghi, l'atmosfera dell'inghilterra bene di fine '700, le protagoniste dei romanzi e sopratutto lo spirito ironico e intelligente di un'autrice che ancora oggi continua ad appassionarci e emozionarci.

sabato 2 luglio 2016

l'interpretazione dei sogni di freud astaire

l'interpretazione dei sogni di freud astaire è un libro che trae in inganno a partire dal titolo, dal primo momento in cui lo vedi. sta lì, tutto carino con la sua copertina rosa, come un demonio travestito da carlino: tu ti impucciosisci, avvicini una mano per fargli una carezzina e quello ti strappa via tutto il braccio. e anche un pezzetto di stomaco, te lo sfila via non si capisce bene come.
a dirla tutta, ne l'interpretazione dei sogni di freud astaire non ci sono sogni da interpretare. e non ci sono neanche freud e fred astaire.
ci sono però dei racconti surreali che hanno come principale scopo quello di lasciarti stordito, confuso, anche turbato e - perché non dire tutta la verità? - anche infastidito.
però, quando un libro ti avvisa prima, non è che puoi rimproverarglielo. e poi diciamo che un libro che scorre via, così, senza lasciarti nemmeno un pruritino addosso... che noia.


angelo zabaglio, che è anche andrea coffami, si diverte come un matto a creare situazioni esilaranti al limite dell'illegale, se ne strafrega del politically correct, spiattella chili di vernice nera sul suo senso dell'umorismo e non si censura nemmeno per un istante.
superati stordimento, confusione e turbamento, tu che leggi questo libro cominci a divertirti insieme a chi lo scrive, e vadano pure a fanculo tutti i perbenismi possibili e immaginabili.

che poi, vero è che freud astaire non c'è, e se ci fosse non starebbe interpretando nessun sogno (e non ballerebbe neanche), ma andrea coffami, che è anche angelo zabaglio, c'è eccome, e i suoi racconti possiamo vederli come sogni un po' allucinati che interpretano le nostre zone d'ombra, quelle reali, quelle che possiamo accettare solo se scritte su un giornale per parlarne poi scandalizzati e con la mano davanti alla bocca, quello che celiamo così a fondo da non farlo emergere nemmeno in un sogno.

mercoledì 22 giugno 2016

l'altra figlia

mai sottovalutare un libro di poche pagine. mai.
l'altra figlia pensavo di sciropparmelo in un paio di ore, sapevo pure cosa mi aspettava, avevo leggiucchiato qualche informazione sul contenuto, che vuoi che sia, se potevo preparare un esame in due giorni, sai che ci metto a leggere questo.
invece mi ha accompagnata per più di una settimana. l'ho letto a smozzichi perché ti obbliga a chiuderlo, e lasciarti rimasticare quella passione immensa che accompagna tutto il testo per ore.


annie ernaux scrive una lunga lettera a una sorella che non ha mai conosciuto, nata e morta prima che lei venisse al mondo, nascosta dalle parole e dai ricordi.
è in una domenica di sole, durante il gioco spensierato, che alle sue orecchie arrivano le parole della madre, dirette a un'altra donna, le parole che svelano il segreto. è in quella domenica che per la prima volta sente parlare dell'altra figlia, di quella che non c'è più. sa che non doveva ascoltare, sa che gli adulti parlano davanti ai bambini come se loro non potesse sentire o, peggio, non potessero capire, si sente quasi in colpa e in dovere di far finta di non aver sentito. ma non può tornare indietro, adesso sa.
da quel momento, nella sua vita ordinaria, fatta di quelle esperienze comuni a buona parte del mondo occidentale, rimarrà lo spettro di quell'assenza.

non è tanto la nostalgia di qualcosa di mai vissuto, di una conoscenza impossibile, quanto la consapevolezza di quel dolore che i suoi genitori conservano in silenzio, e che lei non può condividere né lenire in alcun modo.
la scoperta di questo segreto, e l'abitudine a mantenerlo tale, pesa su tutta la sua esistenza, la plasma inesorabilmente, la rende quella che è.
io non scrivo perché tu sei morta. tu sei morta perché io possa scrivere, fa una grande differenza.
il rapporto con i genitori cambia alla luce dell'assenza della sorella, un'assenza che colma ogni spazio e ogni istante. il dolore di quella perdita che li lega lasciando lei fuori. sente negli occhi della madre quasi una sorta di stupore, forse a volte di disgusto, di fronte al suo corpo che cresce e si fa corpo di donna. impossibile vincere la battaglia contro il ricordo di un'eterna bambina, resa sacra dalla sua stessa scomparsa, una bambina che non sbaglia mai, che mai merita una punizione, semplicemente perché non esiste.
è in lei un costante senso di colpa, un non sentirsi all'altezza di ciò che non è e ha in questo suo non essere la forza schiacciante che assicura l'amore smisurato e senza remore. è il senso di colpa di essere e di poter essere solo in virtù di ciò che non è più, una vita realizzata in cambio di una vita stroncata prematuramente.
sono venuta al mondo perché tu sei morta e ti ho sostituita.
questo dolore di cui si sente circondata non è mai riuscita a verificarlo, non ha mai provato a parlarne, non ha mai cercato di conoscere la sorella attraverso i racconti di chi era riuscito a conoscerla. tutta la sua esistenza sembra ruotare attorno a questo unico punto fisso, un vero e proprio centro di gravità che risucchia come un buco nero qualsiasi pensiero, e da questa ossessione non vuole liberarsi, continuando ad affidarsi a sensazioni al limite della paranoia.

straziante e poetico, crudo e senza nessuna volontà di omettere nulla, senza risparmiarsi alcuna sofferenza, l'altra figlia è un racconto profondo, toccante, intenso e struggente. e annie ernaux scrive come se non ci potessero essere altre parole per dire quello che dice: ogni frase, anche la più lapidaria, riesce a essere perfetta come una lama che affonda nella carne senza che coli una sola goccia di sangue.
leggetelo anche se vi farete del male, ne vale la pena.

lunedì 20 giugno 2016

resoconto (e un po' di fuffa) di una marina di libri 2016

domenica scorsa si è conclusa la bellissima, riuscitissima, meravigliosa e chi più ne ha più ne metta una marina di libri. io non so se ero più felice o più orgogliosa, o semplicemente incredula, fatto sta che non mi era capitato di partecipare a un festival così qui nella mia città. a dirla tutta, non ho mai visto un festival così bello da nessuna parte.
città che, per quanto alcune piccole librerie si sforzino e per quando si tenti di spingere qualche iniziativa culturale, rimane, ai miei occhi, una fossa in cui prima dei libri e dei festival letterari, viene altro (sì, sto cercando di non essere troppo brutale, ma vorrei scrivere di peggio). eppure, per quattro giorni, l'ingresso dell'orto botanico sembrava un vero e proprio portale dimensionale, la porta per qualcosa altro dalla palermo di ogni giorno, quella città che, per volere di pochi, sembra condannata a rinunciare alla sua bellezza.

la copertina della pagina fb di una marina di libri dopo la conclusione del festival

che è stato un successo non lo dico solo io, fin dal primo giorno, girando tra gli stand, ci si rendeva conto che questa edizione non era affatto come le altre volte. molti più editori, moltissimi visitatori, più diecimila libri venduti (almeno secondo la repubblica, ma mi auguro che i dati siano reali), un'atmosfera bellissima di festa e sopratutto di amore per i libri.


il primo giorno siamo arrivati anche prima dell'orario ufficiale di apertura, per goderci il più possibile lo spettacolo prima che arrivasse la folla.
un giardino bellissimo e un sacco di libri. cosa volete di più?





tutti e quattro i giorni sono stati strapieni di eventi interessantissimi, anche se ammetto che non ho partecipato a molti e in alcuni di quelli a cui sono stata, non mi è riuscito di fare una foto decente.
in compenso, ho ascoltato smozzicate della presentazione del nuovo libro di simonetta agnello horbny, libro che desidero follemente ma non sono riuscita a prendere (e neanche a tirar fuori una foto decente), ho scoperto giuseppe culicchia, un autore geniale e divertentissimo di cui non ho mai letto niente, ma spero di rimediare, ho visto de gregori, beccato proprio fuori la porta del bagno mentre aspettava di salire sul palco (ale li ha fatto una foto uno po' sgranata ma bella, fingendosi sordo ai richiami della sicurezza. scusate eh, ma non è che lo incontro ogni giorno de gregori fuori dal bagno), imperdibile roberto lipari, che ha presentato il suo libro con simone riccobono facendo praticamente uno spettacolo che ha fatto ridere con le lacrime una marina di gente.
dulcis in fundo, ho finalmente conosciuto carlo sperduti, che non solo mi ha autografato l'autografabile e mi ha portato apposta uno dei suoi libri. memorabile il reading che, a voler giocare con le parole, suonava più o meno così: sperduti all'ombra del ficus. (da qualche parte sulla pagina facebook ho condiviso alcuni video del reading, se ve lo siete perso, dateci un'occhiata).
al reading è seguito momento alcolico allo stand gorillico.






vorrei ringraziare tanta gente, che non so nemmeno se passerà qui, ma io la mia buona intenzione ce la metto. innanzitutto grazie mille a valeria di gorilla edizioni, per la simpatia, la gentilezza e l'interpretazione dei sogni di fred astaire, e per aver accettato di buon grado che passassimo ore allo stand, e a carlo, per la simpatia, le dediche in dislessichese, le cose inutili, e le chiacchiere. a fabio, che sono stata felicissima di incontrare dopo tanto tempo, a chiara de l'orma, per l'altra figlia, l'entusiasmo e le indicazioni sugli eventi da non perderci. a anna e gli altri ragazzi di modus vivendi che gestivano i banchetto di e/o, nne e fazi, per le chiacchiere e i consigli libreschi, al ragazzo di cui non so il nome dello stand della sur per avermi suggerito santa evita e per la borsetta azzurra, alla ragazza - perdonate, la prossima volta vi chiedo il nome! - de la nuova frontiera, che ha coperto ale mentre tentava di farmi un regalo a sorpresa, ai ragazzi di clichy per i figli della polvere e i mega-sconti di fine fiera, alla signora dello stand di barta per i consigli e, anche qui, le chiacchiere, e a chiara per il bellissimo disegno sulla mia copia di proibito dormire.
insomma, va bene il posto fichissimo, va bene i libri meravigliosi, ma se non fosse stato per tutta questa bella gente sarebbe stata una mezza noia.


ammetto che quattro giorni in cui abbiamo macinato chilometri e chilometri, passando e ripassando da uno stand all'altro, approfittando per girellare un po' all'interno dell'orto botanico, sono stati stancanti, ma ci tornerei pure domani se potessi.

il mio augurio è che il prossimo anno gli organizzatori riescano di nuovo a far svolgere il festival all'orto botanico, non si poteva scegliere un posto migliore a palermo: parlando terra-terra, l'orto botanico è l'unico posto in cui, con tutte quelle piante, non si moriva dal caldo. e poi è bellissimo. ma l'ho detto tipo mille volte. e mi auguro che ci siano ancora più editori di quest anno (mancavano un po' i fumetti, praticamente c'era solo tunué).



se tutto questo non fosse stato abbastanza, il giorno dopo la chiusura del festival è arrivata una notizia fantastica: si realizzerà a palermo la prima biblioteca dell'editoria indipendente, gestita dal coworking neu [nòi] spazio al lavoro. per tutte le informazioni in merito, vi rimando qui.

e adesso... cominciamo a smaltire la pila di libri acquistati e regalati e a fare il countdown per la prossima estate! se avete in programma un viaggio in sicilia e vi piacciono i libri, io vi consiglio di tenere d'occhio il sito di una marina di libri (e ovviamente claccalegge e la pagina facebook!) per prenotare il volo nei giorni giusti.


lunedì 6 giugno 2016

una marina di libri ~ dal 9 al 12 giugno all'orto botanico di palermo

sta per tornare una marina di libri, il festival letterario giunto alla sua settima edizione che ogni anno, a inizio estate, si svolge nella città di palermo. quest'anno, dal 9 al 12 giugno, la cornice dell'evento sarà niente di meno che l'orto botanico.
durante i quattro giorni della manifestazione il gymnasium, il tepidarium, la sala lanza, il calidarium, il tineo o i vari spazi esterni ospiteranno più di 100 eventi, 80 editori, autori e, ovviamente, lettori.
ci saranno laboratori, anche per i più piccoli, incontri, presentazioni e reading.
sono parecchi gli ospiti noti che si alterneranno nel giardino palermitano per eccellenza, tra cui, francesco de gregori, marco mavaldi, simonetta agnello hornby eccetera.


michelangelo pavia, presidente del ccn piazza marina & dintorni, promotore del festival insieme alle case editrici navarra e sellerio, spiega:
"La settima edizione di Una marina di libri trasforma gli alberi nei protagonisti della manifestazione. Il complesso monumentale dell'Orto Botanico accoglie questa nuova edizione trasformando le presentazioni e gli incontri in un grande giardino letterario all'aperto. Un ambiente acustico completamente diverso, un paesaggio sonoro che è difficile da rappresentare ma che, nel momento in cui si vive, diventa subito indimenticabile. L'Orto Botanico di Palermo è un'oasi di pace nel tessuto urbano, un paradiso in cui immergersi per imparare e riflettere. Leggere circondati da un paesaggio naturale è un momento di evasione raro ed emozionante e allora quale luogo migliore di un Orto botanico per parlare di libri e di cultura? La natura è una compagna fedele della cultura, della riflessione, della creatività. E chi l'ha detto che con la cultura non si mangia? La natura è cultura e con la natura l'uomo si sfama. Non c'è Ministro che possa metterlo in discussione. Fare crescere la cultura significa coltivare l'ambiente che ci circonda"
ogni giorno, una marina di libri propone cinque appuntamenti fissi:
- l’edicola, una rassegna stampa ragionata delle pagine culturali curata dagli ospiti del festival.
- dalle 10.00 alle 13.30 un seminario al giorno dedicato a studenti universitari e operatori culturali sulle questioni editoriali,
- alle 18.00 un dibattito tematico,
- alle 20.00 il festival ricorda gli "scrittori che ci… mancano" con un omaggio a uno scrittore scomparso,
- e infine alle 21.00 un’intervista serale a un grande ospite per poi dare spazio alla musica: ogni sera, per chiudere in bellezza tra le piante secolari e a due passi dal mare, un concerto nello spirito di una marina di libri.

e possibile sostenere una marina di libri (l'ingresso al festival e la partecipazione agli eventi sono gratuiti) attraverso il crowdfunding.

iniziative come queste sono incredibilmente preziose, sopratutto se consideriamo che la sicilia è una delle regioni italiane in cui si legge meno e una di quelle in cui è più alto il tasso di povertà educativa infantile. quattro giorni non sono tantissimi e di certo non cambieranno le statistiche, ma è certo che un festival letterario come questo rappresenta la volontà, per palermo e per la sicilia, di crescere culturalmente, di avvicinare grandi e piccoli alla lettura e di dimostrare che l'amore per i libri non è, come purtroppo è parecchio diffuso credere qui, roba per pochi intellettuali o per quelli che non hanno una vita vera, ma è una passione che fa crescere e sopratutto divertire.

altre informazioni su www.unamarinadilibri.it e www.ortobotanico.unipa.it. potete scaricare il programma completo dell'evento qui.

martedì 29 marzo 2016

l'evoluzione di calpurnia

è il 1899, siamo in texas e calpurnia tate è una bambina di undici anni, ha sei fratelli, una madre un po' troppo opprimente, un padre impegnatissimo con il suo lavoro e un nonno misterioso e un po' spaventoso. calpurnia non riesce a sopportare l'idea di tenere capelli e vestiti lunghi d'estate, quando l'afa è insopportabile, detesta suonare il piano e ancor di più il cucito, il ricamo, le lezioni di cucina e tutte quelle cose che sua mamma ritiene fondamentali per una signorina di buona famiglia.


callie è la tipica bambina intelligente, ribelle, monella ma adorabile, una di quelle che riempivano i classici della nostra infanzia, anche se il suo racconto è molto recente, ed è veramente un graditissimo e inaspettato ritorno a quell'età felice per chi ha amato quei racconti, per chi aveva un debole per joe march, anna dai capelli rossi, pippi calzelunghe e tutte le altre indimenticabili, vere eroine.
durante l'estate, calpurnia, aiutata dal taccuino regalatole dal fratello maggiore harry, in cui lei annota tutto quello che osserva, scopre che gli animali, gli insetti, la natura tutta è misteriosa e apparentemente inspiegabile, ma che con un po' di pazienza, attenzione e dedizione, si può venire a capo dei misteri che regolano la vita frenetica tra il fiume e il giardino: perché le cavallette verdi sono più piccole di quelle gialle? resasi conto dell'enorme quantità di segreti da svelare, calpurnia si fa coraggio e inizia ad avvicinarsi al nonno, confidandogli le sue osservazioni e le sue scoperte.
nonostante l'iniziale sorpresa che sia proprio l'unica nipote femmina a mostrarsi così interessata degli argomenti che lo appassionano da anni, il nonno è abbastanza di ampie vedute per prendere subito calpurnia come sua allieva: comincia a parlarle di darwin e dei suoi studi, le insegna tutto quello che può per farla appassionare alla scienza, si sconvolge di quanto poco impari a scuola, dove più che altro le viene lavato il cervello affinché diventi una brava moglie&mamma in futuro, e la porta con se nelle sue scampagnate alla ricerca di esemplari di studio e la fa lavorare con lui nello sgangherato laboratorio dove si dedica, tra le altre, al tentativo di distillare un liquore dalle noci pecan.

ma alle gite spensierate con il nonno, al sogno di diventare una naturalista, alle innocenti ribellioni di calpurnia si infila a forza, sempre più prepotente, la sua vita futura, quella che la vede senza alcuna possibilità di scampo stretta in un corsetto, sposata a un uomo a cui dovrà preparare da mangiare e a cui dovrà partorire un esercito di figli. il momento in cui calpurnia si rende conto che per quanto lei sogni di andare all'università, di diventare una scienziata, tutto questo è impossibile per lei, che non è diversa dalle altre, anzi è esattamente una ragazza come le altre, lì ci sentiamo crollare con lei.
calpurnia è una femminista senza saperlo, o meglio, è una bambina intelligente e ingenua, tanto da non accettare - e nemmeno riuscire a capire fino in fondo - perché non può decidere del suo destino da sola, perché il suo futuro deve dipendere dal suo essere una femmina.
l'accostamento ai suoi fratelli poi, anche quelli più piccoli di lei, rendono il suo sentirsi - ed essere - "diversa" dalle altre ragazze ancora più forte: sono i maschietti di casa tate quelli più coinvolti dalle vicende sentimentali, sono loro quelli più emotivi, quelli più fragili.
calpurnia non è una ragazza speciale, almeno non lo è nella misura in cui non è più intelligente o più capace delle sue coetanee né dei suoi fratelli. il suo essere fuori dal coro è tutto nella non accettazione passiva del le cose stanno così e basta: i suoi più grandi pregi sono la curiosità e l'apertura mentale, stimolati dal nonno con le sue lezioni sul mondo animale e vegetale, ma anche la sua capacità di non arrendersi e di non farsi buttare giù dalle delusioni.
proprio per tutto questo calpurnia risulta essere un personaggio tanto vero e vivo da farci affezionare a lei e alla sua storia.

l'evoluzione di calpurnia non ha un vero e proprio finale, anzi, proprio all'alba del nuovo secolo, come calpurnia, ci sentiamo carichi di fiducia e speranza per il futuro, pieni, come lei, di voglia di fare per vedere realizzati i nostri sogni.
la storia, al momento, continua in un secondo libro, il mondo curioso di calpurnia, che inizia esattamente dove finisce il primo.
non ho ancora avuto la possibilità di leggerlo, ma spero di potermi rifare al più presto!

giovedì 24 marzo 2016

anteprima: "sottrazione" di carlo sperduti e intervista all'autore

il 31 marzo esce sottrazione, una nuova raccolta di racconti di carlo sperduti, autore di un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi (di cui avevo parlato qui) ma visto che claccalegge è uno dei blog più fiQi dell'internét, oggi se ne parla in anteprima, grazie sopratutto a gorilla sapiens edizioni che mi ha spedito una copia del libro!

sulla quarta di copertina di sottrazione (divagazione necessaria: a me sta cosa che le quarte di copertina dei gorillibri - ovvero dei libri della gorilla sapiens edizione - inizino sempre con caro lettore di quarta di copertina mi piace da morire. anche se a me mi non si dice) si legge così:
Caro lettore di quarta di copertina, Come in un labirinto, come tra le pareti di una catacomba, come in una casa affollata di presenze e di vuoti, di cose e discorsi sospesi e di fenomeni inquietanti, in questo libro lo spazio si deforma e restringe, allestisce tranelli, sottrae scalini, nega vie di fuga. Questi 34 racconti, disposti in ordine decrescente di lunghezza, esprimono le infinite possibilità della narrativa breve e brevissima, a dimostrazione empirica del fatto che “scrivere per sottrazione è una moltiplicazione”.
e già mi piace.


un libro di racconti è per me un libro mordi e fuggi, uno di quelli che non sei costretto a rimanere con il naso tra le pagine fino a che non arrivi all'ultima pagina, ed è facile anche perché in realtà di ultime pagine ce ne sono parecchie, visto che i racconti sono parecchi.
come mi era già successo con il tebbirile intanchesimo etc. (che mi ha seriamente fatto dubitare di essere dislessica, cosa che sostengono in molti, non di esserlo, ma che lo sia io, nonostante legga ininterrottamente - quasi - dalla tenera età), ogni volta che inizio un racconto di sperduti mi sembra di essermi appena risvegliata in un posto del tutto nuovo e sconosciuto dopo una gran mazzata sulla testa. non sai bene a cosa andrai incontro, se le regole di quel mondo sono quelle che pensavi di conoscere, se i personaggi non siano dei pazzi sfrenati e potenzialmente pericolosi, se le parole hanno lo stesso significato di quello che fino ad adesso pensavi avessero (che poi penso: magari sono davvero dislessica e da quando avevo sei anni fino ad ora ho letto cose che non solo non ho capito, ma non esistono proprio e magari le parole cambiano ogni volta nella mia testa).

sottrazione mi ha regalato parecchi di questi viaggi strani: dalle case malate ai ristoranti cinesi in cui servono errori (oltre che orrori), dagli armadi a buco nero ai nei antropofagi, da stanze che diventano sempre più grandi a cucine che contengono lasagne paradossali, fino a quei posti in cui le cose smettono di cadere e rimangono ad annoiarsi a mezz'aria, in compagnia di personaggi sorprendenti, tra cui l'uomo che faceva le cose a contrario, isignazio che, vorrei vedere!, odia il suo nome, fumatori troppo timidi e gente che parla sì poco, ma dice sempre cose vere.

a collegare i racconti tra loro non è una tematica precisa o dei personaggi particolari, quanto la sensazione surreale che tutto ciò che non potrebbe avere senso ha davvero un senso, un rincorrersi di paradossi logici, spaziali, temporali e persino culinari, e sopratutto la capacità, che è la cosa che mi piace tantissimo di questo autore, di saper giocare con le parole, con le lettere, per non parlare di punti, virgole e apostrofi.
questo libro mi ha sorpresa, in fondo non è facile sapere cosa aspettarsi da un libro del genere, di sicuro è impossibile immaginare cosa succedere tra due righe, figuriamoci alla fine del racconto, ogni volta, per ogni racconto.

consigliatissimo a chi cerca una lettura un po' diversa da solito, a chi è della filosofia il come mi interessa di più del cosa*.

*in risposta alla detestabilissima domanda: di cosa parla questo libro?

mentre aspettate che sia il 31 marzo per andare in libreria a comprare la vostra copia di sottrazione, leggetevi questa intervist chiacchierata con carlo sperduti!


ciao carlo, grazie mille per aver accettato di dedicarmi un po’ del tuo tempo, e benvenuto su claccalegge!

ho una domanda che riguarda sottrazione, ovvero: perché scrivere una raccolta di racconti basata sulla lunghezza, o meglio sulla slunghezza (cit.) del testo?
Sottrazione è una selezione di materiale scritto negli ultimi due anni e mezzo circa. Come nel caso di Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi, sempre pubblicato da Gorilla Sapiens Edizioni, si tratta di una raccolta non pensata come tale, ma assemblata a posteriori. Dovendo anche stavolta trovare una via per organizzare i testi (per l’altro libro il criterio era tematico) mi sono spontaneamente focalizzato sulla lunghezza, o meglio sulla brevità. Sostanzialmente, mi sono reso conto che tendo a scrivere cose sempre più brevi (l’ultimo racconto di Sottrazione è di 163 battute spazi inclusi) e mi è venuta l’idea di un libro che desse l’impressione di una caduta a precipizio verso la pagina bianca, quindi verso l’annullamento della narrazione (o verso il suicidio della scrittura o in qualunque altro modo lo si voglia dire: insomma, farla finita con questo spocchioso vizio di raccontare). D’altro canto, però, è indicativa la frase con cui si apre il libro, Scrivere per sottrazione è una moltiplicazione, nata come gioco di parole abbastanza scemo e rivelatasi poi l’espressione di un dato di fatto: nel libro i racconti sono molti (34 più un’appendice) e a ognuno corrisponde un modo di raccontare (solo pochi si assomigliano nei toni e nella struttura). Dunque, se il libro punta al nulla, contiene però un campionario di modi di scrivere che sarebbe necessariamente più ristretto con un minor numero di racconti: la strada dell’annullamento e della moltiplicazione si possono percorrere contemporaneamente, a quanto pare. Anche di questo mi sono reso conto a posteriori. Inoltre, come ho scritto nella breve nota che apre il libro (in cui do informazioni sulla provenienza di alcune storie) non ci si deve stupire del criterio adottato nella raccolta: è arbitrario quanto ogni altro.

non sono ancora riuscita a recuperare tutti i tuoi libri (ma lo farò!) però mi pare di capire che preferisci il racconto al romanzo. perché questa scelta? quali sono secondo te i vantaggi di un racconto più breve rispetto a una storia più lunga?
Non porrei la questione sul piano dei vantaggi o degli svantaggi. Che i miei gusti di lettore e di autore siano orientati verso il racconto è palese. Anche quando scrivo cose lunghe (relativamente: la mia storia più lunga, Caterina fu gettata – Intermezzi Editore – supera di poco le 160.000 battute) tendo sempre a procedere per frammenti che abbiano un’identità forte, in alcuni casi una compiutezza, anche se non relazionati al contesto. Le cose inutili, per esempio, che è uscito l’anno scorso per CaratteriMobili, è una storia unica composta da brani le cui connessioni non sono sempre immediatamente percepibili, di modo che il lettore è chiamato a ricostruire la trama almeno in parte. Anche a questo proposito, benché si tratti di un romanzo breve, potrei ripetere il discorso fatto per Sottrazione, intendo la parte sul campionario di modi di scrivere: i vari capitoli de Le cose inutili, infatti, o le varie serie di capitoli, utilizzano procedimenti formali differenti. In conclusione, credo che si tratti di una sorta di forma mentis, quella del racconto – così come quella del romanzo per altri – e non, come dicevo, di una questione di vantaggi.

da cosa nascono i tuoi racconti? alcuni sembrerebbero delle tranquillissime scene quotidiane fino a che qualcosa non rivela qualcosa di completamente assurdo e surreale...
È vero, in alcuni casi i miei racconti funzionano così: un’incursione dell’illogico – o del diversamente logico – in situazioni apparentemente normali (il primo che mi viene in mente è La situazione non precipita, in Sottrazione). Ma è solo una delle possibilità, e a volte è il risultato di altre scelte. Come credo risulti chiaro da quanto detto finora, non mi piace star fermo su un’unica formula. Ciò non vuol dire che io non torni mai su una formula (se l’ho trovata efficace è probabile che la riutilizzi in racconti successivi) ma in generale preferisco che ogni racconto abbia la sua logica e il suo espediente letterario. Per questo una risposta diretta alla tua domanda non è facile, ma non voglio neanche far ricorso a scappatoie come “non c’è una regola fissa”. Quindi sarò specifico, portando alcuni esempi, relativi ad altrettanti racconti. L’idea di Istruzioni per Lucio, contenuto in Un tebbirile intanchesimo, consiste né più né meno che nell’elenco lievemente romanzato delle possibilità combinatorie di due serie di elementi: da una parte delle chiavi di varia forma, dall’altra le serrature corrispondenti; Unità di mistura, in Sottrazione, fa utilizzo di tempi verbali incoerenti per restituire attraverso la lingua lo smarrimento sentimentale del narratore; Un tebbirile intanchesimo, dall’omonima raccolta, fa dell’inversione dislessica di lettere e sillabe sia un espediente formale che un elemento della trama; Dizionario dei sinonimi e degli inonimi (in Sottrazione) simula a fini umoristici una dissertazione accademica sui difetti dell’italiano scritto e parlato. E così via... dunque niente scappatoie come “non c’è una regola fissa”, ma di fatto non c’è una regola fissa. Però c’è sempre una regola.

sempre a proposito di racconti, tu sei abbastanza “fuori moda” considerando quello che al momento sembrerebbe essere più apprezzato, ovvero trilogie, quadrilogie, saghe interminabili. cosa ne pensi di tutte queste storie (quasi) infinite?
Ti ringrazio per il fuori moda. In ogni caso, nonostante la mia predilezione per la brevità, non ho pregiudizi contro la lunghezza. Solamente, credo che a ogni storia corrisponda un’estensione ottimale, e a ogni estensione un certo tipo di storia (per intenderci: Continuità dei parchi di Cortázar non poteva che essere così breve; Alla ricerca del tempo perduto di Proust non poteva che essere così lungo). Quando le due coordinate non trovano un equilibrio si pone un problema: se sei Fëdor Dostoevskij e ogni tanto allunghi il brodo perché devi pagarti i debiti di gioco e stai pubblicando a puntate, ben venga, magari il romanzo si slabbra un po’ e invece di essere perfetto è solo inarrivabile; se non sei Fëdor Dostoevskij e scrivi una tetralogia che Proust potrebbe riassumere in un capoverso scritto mentre fa cattleya, con risultati infinitamente migliori, allora è questione di soldi, proprio come nel caso di Fëdor Dostoevskij, ma quei soldi non te li meriti (a meno che tu non li perda al gioco e allora avresti almeno un punto in comune con Fëdor Dostoevskij, per quanto io preferisca il metodo Landolfi).

se dovessi scegliere uno tra i tuoi racconti, quale sarebbe quello che preferisci, o quello a cui ti senti più legato?
Questa è davvero difficile. Dovendo sceglierne solo uno, attualmente direi Nulla di male, in Sottrazione, ma se me lo chiedessi fra un mese probabilmente sarebbe un altro. Nulla di male comincia così:

Dopo l’ultimo boccone, Tiziano ripone le posate nel piatto e le osserva per un minuto, i pensieri indistinti.Fa lo stesso ogni giorno, senza un motivo particolare.La cucina dei suoi pranzi solitari occupa un angolo del quinto piano del condominio. Al di là della parete a cui è addossato il tavolo una spenta facciata ocra, più bella a scriversi che a vedersi, poi il vuoto sopra un marciapiede sconnesso di una ex periferia.Qualcosa gratta, oggi, lì dentro il muro o lì fuori dal muro, chissà, interferendo con la contemplazione di una forchetta verdeggiante di pesto.Letizia arriverà a minuti.Se Letizia sta arrivando, quel suono deve essere innocuo. Se Letizia non stesse arrivando, quel suono sarebbe un incubo. Se Letizia se Letizia se Letizia, la forchetta la forchetta la forchetta.

mi consigli un libro assolutamente imperdibile?
Una pinta d’inchiostro irlandese di Flann O’Brien, del 1939: è uno dei romanzi più innovati, complessi e divertenti che abbia mai letto. Nelle prime righe si legge questo:
L’idea che un libro dovesse avere un solo inizio e una sola fine, non mi convinceva. Un buon libro poteva avere tre inizi completamente diversi, collegati tra di loro soltanto nella prescienza dell’autore, e finire, se necessaio, in trecento maniere diverse.
Segue un Esempio di tre inizi indipendenti.

la cosa che più mi piace del tuo modo di scrivere è che a te piace giocare con le parole. quali sono le figure retoriche che preferisci e quelle che invece non usi – volontariamente – mai?
Ho un rapporto di amore e odio con il linguaggio in generale e con la lingua in particolare. Lo stesso tipo di rapporto ce l’ho con la letteratura, i suoi tic nervosi e le sue convenzioni. Credo che la comunicazione non esista, a nessun livello, che sia una presunzione tutta umana a volte e una consolazione altre volte, come la religione o giù di lì, in ogni caso un’impostura, per non parlare del “senso” o “significato” di cui dovrebbe essere veicolo. Quindi niente preferenze: la retorica con le sue figure la prendo tutta, pacchetto completo, e qualche volta la utilizzo come se avesse uno scopo o fosse reale, altre volte per prenderla in giro come se pretendesse di avere uno scopo o di essere reale.

pubblicare con piccoli editori indipendenti è stata una scelta personale o si tratta solo di è andata così?
Che sia andata così è un fatto. Ma è andata così per una serie di motivi: gli editori con cui pubblico sono editori di cui mi fido, sul piano professionale ma anche su quello personale, a cui ho proposto i miei lavori e che li hanno scelti, e con cui non intendo smettere di collaborare almeno finché apprezzeranno quel che scrivo, cosa che reputo fondamentale. D’altro canto, sono consapevole che difficilmente un editore di altro tipo, un medio-grande, potrebbe essere interessato a quel che scrivo, se ho capito che aria tira. È pur vero che ad altri editori, altrettanto indipendenti rispetto ai miei, non sono piaciuto, dunque non si può generalizzare. Facendo un rapido calcolo, non piaccio ai nove decimi degli editori che ho contattato negli anni, quindi è evidente che Gorilla Sapiens Edizioni, CaratteriMobili e Intermezzi Editore abbiano preso un abbaglio. Però non escludo niente: nell’ipotesi di altre proposte, da parte di indipendenti o meno, le valuterò come ho fatto con le precedenti. Ma per ora non me le vado a cercare: sto bene dove sto.

pensi che sia valida, per le case editrici ma se vuoi anche per gli scrittori, l’equazione meno titoli = più qualità?
No, penso che un editore possa immettere sul mercato anche un solo pessimo libro all’anno, improponibile sin nei minimi dettagli. Lo stesso vale per uno scrittore in tutta la vita.

cosa ne pensi delle graaandi case editrici, quelle che inondano ogni settimana le librerie di nuovi titoli?
Che fanno il loro mestiere, chi meglio chi peggio, e che di questi nuovi titoli pochi m’interessano, ma succede lo stesso, in proporzione, con alcuni piccoli editori: meno titoli, quasi nessuno che m’interessi (soprattutto nel caso in cui il piccolo editore indipendente tenta di ricalcare le logiche del grande editore, con esiti per lo più grotteschi). Tutta questa ossessione per la differenza tra editore indipendente e colosso editoriale non riesce a coinvolgermi. O meglio: finché si parla di economia, distribuzione, monopoli, saturazione del mercato e via dicendo il discorso regge, ma quando si confondono questi aspetti con la qualità del prodotto finale (del singolo libro, non di tutti i libri di un determinato editore o della sua teorica linea editoriale) allora non vedo la connessione, e più di una volta mi è sembrato che si vada avanti per slogan da entrambe le parti, che la retorica del piccolo editore che resiste sia sfruttata a mo’ di strategia pubblicitaria al pari delle fascette che annunciano un miliardo di vendite in una settimana. A me interessa la letteratura – la narrativa in particolar modo – e ho i mezzi, come tutti al giorno d’oggi, per informarmi a proposito. Dunque, se m’imbatto in quello che reputo un buon libro io lo compro e lo leggo perché m’interessa. Se questo buon libro l’ha pubblicato Mondadori, rimane un buon libro. Se questo buon libro l’ha pubblicato Gorilla Sapiens, è lo stesso buon libro.

e delle autopubblicazioni?
Le sconsiglio a chiunque abbia l’intenzione di farsi conoscere come autore attraverso un prodotto di qualità. Le consiglio a chiunque abbia intenzione di divertirsi e regalare o vendere le proprie storie o poesie ad amici e parenti.

stai già lavorando a qualche nuovo progetto?
Sì, sto lavorando a un romanzo che spero di ultimare entro qualche mese e che, sebbene le vicende narrate non c’entrino un bel niente, ha qualche punto in comune, a livello tematico e strutturale, con Le cose inutili. Poi ci sono un altro paio di progetti in cantiere, ma le idee per ora sono così approssimative che non vale la pena parlarne.

dato che mi è piaciuta parecchio la storia (le microstorie?) dell’uomo che faceva le cose a contrario, la domanda che avrebbe dovuto aprire l’intervista (ugh) te la faccio alla fine: chi è carlo sperduti? e sopratutto quando e come ha deciso di fare lo scrittore?
Per fortuna Carlo Sperduti non ha mai deciso di fare lo scrittore. È un tizio che ha da poco passato i trenta, che ha vissuto la prima parte della sua vita tra Broccostella e Sora in Ciociaria, la seconda parte a Roma e che ha appena iniziato la terza a Perugia. Verso i diciasette anni, per puro caso, si è trovato a scrivere un racconto e la cosa gli è sembrata divertente, così ha smesso perché il suo personaggio di allora aveva il dovere morale della sofferenza; ha poi ricominciato nel 2008 e ha continuato fino a oggi. Continuerà finché si divertirà.

ah, un’ultimissima cosa che però non è proprio una domanda ma una richiesta, anche un po’ idiota (quindi se vuoi ignorala), ci regali un racconto breve, brevissimo, sottrattissimo?
Da Re minori in microfiabe, appendice di Sottrazione:
C’era una volta il Re Gina.Somigliava in maniera impressionante a sua moglie. Fatto strano: i due non si facevano mai vedere insieme.


e e e grazie mille per tutto! spero di vederti presto a palermo a parlare di sottrazione e dei tuoi libri!

ed ecco il programma del sottrazione tour:

giovedì 30 ottobre 2014

l'imprevedibile viaggio di harold fry

avevo bisogno di un libro così da un sacco di tempo. solo che forse non lo sapevo. beh, più o meno. volevo una sensazione di totale soddisfazione arrivata all'ultima pagina, e c'è stata.
ora, potrebbe bastare questo.
e invece no. (tranquilli, niente spoiler!)

harold fry è un pensionato sulla sessantina, vive con sua moglie maureen in una modesta casetta nel sud dell'inghilterra. i due non hanno un bellissimo rapporto, e harold è una persona fin troppo mite, riservata e tranquilla per prendere iniziative di qualsiasi tipo. la sua vita è banale e vuota, da qualsiasi punto di vista la si guardi, uguale a se stessa, giorno dopo giorno.
fino a quando non riceve una lettera.
una sua vecchia amica e collega di lavoro, queenie hennessy, ha il cancro. sta morendo in una casa di cura, da sola, in scozia. dall'altra parte del paese.
commosso e scioccato, harold le scrive un biglietto di risposta. ma quando va a imbucarlo, qualcosa gli impedisce di lasciare cadere la busta nella buca delle lettere. va avanti ancora, ancora pieno di dolore per la sorte di queenie, e anche lì, nulla, non riesce a lasciar andare il biglietto. un solo biglietto non può bastare a chi è malato di cancro e sta morendo. e ancora e ancora, fin quando arriva, stanco per la camminata, quasi alla fine del paese, dove in una stazione di servizio racconta di queenie alla ragazza che lavora lì, e lei inizia a parlarle di fede, la sola cosa che può salvare la gente da un male tanto grande.
non la fede in dio o cose del genere. semplicemente la fede in sé stessi e nel desiderio che quella persona non muoia.
così harold capisce. non può fermarsi, imbucare il biglietto e tornare indietro. deve camminare. andare fino all'altra parte dell'inghilterra, a piedi, arrivare da queenie. se lui arriverà lì, lei vivrà. deve solo credere in questo, e deve crederci anche lei.
così inizia l'imprevedibile viaggio di harold fry, un viaggio attraverso l'inghilterra e tra i ricordi, tra malinconia e rimpianti per gli errori compiuti, le parole non dette, l'affetto negato e la speranza di poter rimediare al tempo perduto anche quando si pensa sia troppo tardi.
tutta la gente che harold incontra, ognuno con la sua vita, più o meno disastrata, vista con occhi nuovi, senza pregiudizi, pieni di voglia di conoscere: smette di essere gente e si moltiplica in un mare di individui, di storie, di sentimenti, di generosità, di bontà, di bellezza.

gli avevano offerto conforto e riparo, anche se lui aveva paura di accettare; e accettando, aveva imparato qualcosa di nuovo: che si ottiene un dono sia nel ricevere sia nel dare, che c'è bisogno di coraggio e di umiltà in entrambi i casi.

mi sono appassionata tantissimo alla storia di harold fry. letteralmente. mi sono trovata con i lucciconi agli occhi mentre leggevo in autobus, a sorridere quando lui si rende conto pian piano di quante storie nascondono le persone, di come è facile scoprire che in ognuno c'è qualcosa di buono che può arricchirci, a soffrire per i suoi ricordi più dolorosi e a fare il tifo per la storia d'amore tra lui e maureen.
ho il vizio di sbirciare spesso la fine di un libro, ma questa volta non ne ho avuto il coraggio, mi sembrava di tradire quell'ometto che camminava con le scarpe ormai rotte, vacillando tra l'euforia e la disperazione, tra la sicurezza di farcela e la sensazione di perdita di senso. non potevo far altro che andare avanti con lui e vedere se sarebbe riuscito a compiere il suo viaggio.
e alla fine è stato struggente. e consolatorio. e commovente. e anche dolce.

questo è forse il romanzo più bello che ho letto quest'anno. o negli ultimi anni. o mesi. o vattelapesca, non mi interessano le classifiche. questo è il romanzo che avevo bisogno di leggere adesso.
è un regalo bellissimo che mi è stato fatto dal mio spacciatore di storie preferito.
fatevi un regalo anche voi, leggetelo assolutamente.

giovedì 16 ottobre 2014

commenti randomici a letture randomiche (1)

dunque, per ora che sono in astinenza da fumetti, mi sono buttata senza dignità a leggere libri come se non ci fosse un domani, divorando pagine su pagine.

*attenzione! questo post contiene spoiler e una massiccia dose di sputtanamento e lamentazioni*


tipo ho scoperto la mastrocola, di cui avevo che animale sei? che languiva in libreria dai tempi di anobii, ricevuto tramite qualche scambio e preso senza troppa convinzione.
male, perché me ne sono innamorata subito dopo le prime due pagine e mi è piaciuto fino alla fine, nonostante per tutta la lettura avessi il panico da adesso so che succede qualcosa che non mi piacerà. invece non c'è stato nulla che non mi sia piaciuto di questo libro. è una bella storia sul trovare il proprio posto tra gli altri e nel mondo e blabla, ma senza nessuna retorica da due soldi. un'anatra che ha per mamma una pantofola (questa cosa mi ha fatto sciogliere. perché lei vuole bene davvero alla sua mamma pantofola. anche se è una pantofola. perché è la sua mamma, l'ha scaldata, l'ha cullata, l'ha abbracciata quando non c'era nessuno e l'ha fatto anche essendo solo una pantofola. quanto è bello?) che cerca di capire chi è, passando tra assurde città di castori ingegneri e pipistrelli politicanti. e quando scopre finalmente di essere un'anatra e prova a stare con i suoi simili, si rende conto che appartenere semplicemente a una stessa specie non basta a farla sentire a casa. e che il suo posto è quello più inverosimile e impensabile del mondo.
e insomma niente. sciolta, completamente, come un panetto di burro dimenticato fuori dal frigorifero.

mentre una barca nel bosco mi ha lasciato molto amaro in bocca. non per la storia in sé, ma per come la storia è stata scritta. l'idea di base non mi spiace. un ragazzo, nato e cresciuto su un'isola, plausibilmente al sud italia, molto intelligente, ingenuo e studioso, va a fare il liceo a torino, scontrandosi con i gggiovanidicittà, accompagnato dalla madre e ospitato dalla zia. ora. poteva anche essere carino. poteva.
ma l'esasperazione a volte insopportabile dei personaggi mi ha dato così ai nervi che ho quasi odiato il libro, per quanto l'abbia divorato in pochi giorni.
va bene essere ingenui. ma completamente idioti no. va bene essere timidi, va bene essere modesti, ma ci sono dei limiti oltre i quali nessuna persona si spingerebbe. e va bene anche essere provinciali da un lato e cittadini dall'altro, ma la differenza tra l'isolano e i ragazzini di città è al limite del grottesco. lui sembra uscito dal dopoguerra e i suoi nuovi compagni sono dei truzzi rincoglioniti come se il peggio dei licei d'italia si fosse concentrato in due persone sole.
e va bene che ci sono professori che la prendono alla leggera, ma come è descritto qui sembra davvero una barzelletta.
e insomma niente. a me non è piaciuto come un ragazzo timido e intelligente sia diventato una specie di demente in un pianeta di cretini incapaci di parlare se non come un ottantenne degli anni cinquanta imiterebbe un paninaro di vent'anni fa.
deludente. eppure ci sono delle uscite geniali. la casa bosco...
che peccato che questo libro sia uscito così. davvero davvero un peccato.

adesso mi serve un terzo libro per capire se la mastrocola è quella delle anatre adorabili o dei tonti patologici.

sulla scia delle lamentazioni ci finiscono anche stargirl e il diario di bridget jones.
il primo non mi stupisce tanto. ok no. in realtà dopo averne tanto ben sentito parlare mi aspettavo qualcosa che uao, mi rimescolasse come un caffellatte tra le mani di un barista. e invece niente.
ragazza stramba in classe di stereotipati, amorazzo adolescenziale ma lui non accetta le stranezze di lei per paura che il gruppo non se lo fili. blabla.
solito racconto con morale su quanto i ragazzi siano stupidi a stereotiparsi. il gruppo blabla.
ma dico, un pochinino più di provare a capire il perché a una certa età appartenere ai gruppi sia sacrosanto, meno banalizzazioni e un po' più di pensiero critico. ok, sii te stesso. ma quando ancora non sei niente non è facile, non sai dove andare, cosa fare, cosa pensare, come vestirti, come parlare, con chi stare eccetera eccetera e isolarsi e farsi isolare solo in nome di una miticamente decantata necessità di originalità e unicità mi sembra l'apoteosi del banale.
ecco, banale e superficiale.
grande, grande delusione.

idem il diario. cioè, io mi aspettavo bridget come la sorella grande di becky. una roba kinselliana da piegarsi dalle risate condita in salsa austeniana, con meno soldi e più disperazione legata al sovrappeso.
sul sovrappeso c'ero.
ma la noia. non c'è nulla che mi abbia fatto fare più di un risolino di compatimento, niente che mi abbia coinvolta più di tanto e men che mai sorpresa a parte la totale idiozia a cui i personaggi arrivano, senza neanche avere il buon gusto di essere divertenti.
il peggio è che il riferimento spudorato a orgoglio e pregiudizio mi ha anche urtata parecchio. perché andare a scomodare darcy ed elisabeth quando si poteva comunque tirare fuori una roba mediocre anche da soli?
niente, proprio niente. essì che il film me lo ricordo carino. sarà che c'era hugh grant?

e ora sparatemi pure