venerdì 24 novembre 2023

yokohama kaidashi kikou - vol. 1

the other day, you shocked me. you showed me that my heart could take flight, and I didn't need to do it in a human way. it seems I had still been trying to imitate people better.
now I've started to wonder... just what we're made of. I've come to think being a robot as just another quirk.

togliamoci subito il dente, così non ci pensiamo più: aspettavo una traduzione italiana di yokohama kaidashi kikou più o meno da quando ho iniziato a girellare su internet e ad appassionarmi di manga, cioè tipo dal 2003/2004. più o meno vent'anni di attesa fino all'annuncio da parte di una delle case editrici che apprezzo di meno (per colpa non soltanto dei ritardi stratosferici nelle pubblicazioni ma anche per le traduzioni incomprensibili, come ad esempio quella degli ultimi volumi di himitsu, di cui sinceramente non c'ho capito nulla).
quindi, visto che nel frattempo una casa editrice americana, la seven seas lo stava pubblicando in un'edizione stratosferica, una omnibus che raccoglierà tutta la serie in cinque volumoni di 450 pagine - di cui molte a colori come nell'edizione originale - circa ciascuno, mi sono buttata senza alcun rimorso su quella (così ne approfitto anche per restaurare la mia autostima in merito alla mia capacità di leggere in inglese. se vi interessa, qui trovate tutte le informazioni).

la pubblicazione di yokohama kaidashi kikou (che si traduce più o meno come un giro di shopping a yokohama, non c'è nessun blog) è iniziata nel 1994 su afternoon, una delle più famose riviste di manga seinen giapponesi e si è conclusa nel 2006, e nel frattempo è stata adattata in due serie di oav di due episodi ciascuna tra la fine degli anni '90 e i primi duemila.
yokohama kaidashi kikou si potrebbe collocare a metà strada tra il genere post-apocalittico (o da apocalisse in corso, per essere più precisə e lo slice of life: ambientato in un futuro non troppo lontano nel tempo ma non meglio precisato, ci mostra un mondo in cui i cambiamenti climatici e i disastri ambientali hanno fatto innalzare drasticamente il livello del mare, divorando città intere sulla costa come, appunto, quella di yokohama. il numero degli esseri umani è calato notevolmente e ora la gente vive in piccole, modeste comunità anche molto distanti tra loro, mentre la tecnologia è molto più avanzata di quella che conosciamo, e la presenza di robot fisicamente uguali agli esseri umani è perfettamente assodata.

una di queste è alpha, la protagonista della storia. qualche anno prima dell'inizio della storia, il suo creatore è partito per un viaggio e l'ha lasciata nella penisola di miura dove alpha decide di aprire un piccolo caffè. alpha è curiosa e innamorata del mondo in cui vive, dei suoi paesaggi e delle persone che lo abitano e spesso, con la sua macchina fotografica e il suo motorino, va in giro a collezionare memorie e ricordi, accompagnandoci alla scoperta delle piccole ma preziose schegge di bellezza e malinconia che riesce a scovare in giro.
a distinguere alpha dagli altri esseri umani è solo il colore verde dei suoi capelli, eppure la consapevolezza di essere un robot la fa sentire diversa e, al contempo, incuriosita e affascinata da ciò che rende gli esseri umani davvero umani.
insieme a lei, gli altri personaggi che animano i paesaggi di questo giappone costiero e quasi deserto sono il giovane takahiro, affezionatissimo ad alpha, e suo nonno, che tratta alpha un po' come se fosse anche lei sua nipote. c'è poi la strana creatura umanoide, dalle fattezze di una ragazza agile e forte come una bestia selvatica, che solo in pochə riescono a vedere e che, a suo modo, è molto affezionata a takahiro. c'è poi kokone, il primo robot che alpha incontra, una ragazza che lavora come corriere e che diventerà presto amica di alpha.

la storia va avanti lentamente, ogni capitolo è quasi una storia a sé, un frammento di quotidianità in cui, nella malinconia di un mondo che muore lentamente, chi è rimastə si sforza di cogliere ogni lampo di bellezza, di gioia e di stupore per poterlo conservare nella sua memoria.
l'apocalisse di hitoshi ashinano procede lenta e senza brusche accelerazioni e l'atmosfera è quella tutta squisitamente giapponese in cui malinconia e contemplazione della bellezza si uniscono insieme, regalando un'emozione unica che è impossibile esprimere con una sola parola ma che evoca immediatamente l'immagine di un albero di ciliegio da cui cadono leggeri i petali.

quale che sia l'edizione che scegliate, vi consiglio tantissimo di recuperare questo titolo

giovedì 23 novembre 2023

demon slayer - another story

«devi accogliere le fiamme nel tuo cuore, quelle fiamme che inceneriscono i demoni malvagi e illuminano gentilmente gli umani. devi accogliere nel tuo cuore fiamme come quelle del sole»

demon slayer è una di quelle serie per cui provo sempre un po' di nostalgia, una di quelle che vorrei non finissero mai, che continuasse a raccontarmi la vita dellə suə personaggə ancora e ancora e ancora.
ovviamente, quindi, non potevo perdermi questo spin-off - demon slayer - another story - che racconta la storia di due dei miei personaggi preferiti della serie, giyu tomioka, la colonna dell'acqua, e sopratutto kyojuro rengoku, la colonna del fuoco.
si tratta, in realtà, di una sorta di fanfiction ufficiale scritta e disegnata da ryoji hirano, ispirata dall'opera principale di koyoharu gotouge che ha supervisionato la stesura delle storie di questo volumetto dando, quando necessario, i suoi suggerimenti sullo sviluppo delle trame e dellə personaggə.
il risultato è molto buono (l'unica parte del volume che non mi è piaciuta molto è quella finale, in cui sono raccolte alcune brevi strisce comiche che riprendono i fatti della storia originale), sicuramente apprezzabilissimo dallə fan di demon slayer.

la prima storia è dedicata a tomioka, inviato in un piccolo villaggio del nord per indagare sullo sterminio di una famiglia. qui incontra shinobu, in viaggio per raccogliere erbe medicinali, che si rivelerà un valido aiuto per le sue ricerche. nel villaggio, intanto, lə abitanti danno la colpa della tragedia a un orso selvatico ma il comportamento di yae, l'unica sopravvissuta della famiglia e unica erede dei matagi (i cacciatori - tutti uomini con la sola eccezione di yae - di orsi e cervi durante la stagione invernale), lascia presagire che la verità sia un'altra e che la ragazza sappia più di quanto non voglia ammettere...

il secondo racconto ruota intorno a rengoku, alla sua amicizia con kanroji e allo scontro con una delle lune demoniache, la prova che gli permette di diventare una colonna della squadra ammazzademoni. rivedere rengoku, ritrovare il suo carattere solare e determinato, scoprire di più sul suo passato è stato enormemente emozionante e, se nella prima storia si sentiva l'influenza dell'incontro con tanjiro su tomioka, qui i brevi flashforward di quello che sarà poi nello scontro raccontato nel capitolo del treno mugen strappano inevitabilmente qualche lacrimuccia allə lettorə.

in sintesi, demon slayer - another story è un volumetto molto carino che strizza più di una volta l'occhio ai fan dell'opera di gotouge e che regala qualche momento in più in compagnia di due dellə personaggə forse più amati della serie.

domenica 19 novembre 2023

ogni mattina a jenin

in un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di amal, un paesino a est di haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e sole.

in questo periodo sto seguendo con tutta l'attenzione possibile quanto sta succedendo in palestina e nei territori occupati (chi mi segue su instagram lo sa bene) e, nello stesso tempo, ho cercato consigli di lettura, di narrativa e saggistica, sull'argomento. sì, anche narrativa, perché credo moltissimo nella forza dei racconti, delle narrazioni che facciamo degli eventi. ogni mattina a jenin è, da questo punto di vista, un romanzo dalla forza straordinaria.
è proprio nella dimensione personale del racconto di vita che, secondo me, si riesce a cogliere quello che nessun libro di storia, nessuna cronaca né, tantomeno, nessuna sfilza di numeri e statistiche potranno restituire, e cioè la dimensione umana di tragedie come quella che affligge lə palestinesə dal 1948.

il romanzo si apre con una scena drammatica: è il 2002 a jenin, siamo negli anni della seconda intifada, e la nostra protagonista, amal, ha lo sguardo fisso negli occhi del soldato israeliano che le sta puntando un fucile alla fronte. non ha paura di morire, sa che non è questo il suo momento, eppure il momento è così intenso che la memoria la porta indietro, lontano nel tempo, a un mondo che è scomparso prima che lei nascesse.

da qui ci spostiamo più di sessant'anni nel passato, nel 1941, in un piccolo villaggio, 'ain hod, vicino ad haifa, dove il tempo è scandito dalla preghiera e dalla raccolta delle olive - quegli uliveti che sono simbolo della palestina stessa e del legame dellə palestinesə con la loro terra. 
conosciamo così yehya e sua moglie bassima, che saranno lə nonnə di amal, mentre si preparano alla raccolta, in un'atmosfera di festa e serenità che neppure gli screzi scherzosi con il vicinato riescono a smorzare. insieme a loro, ci sono hassan e darwish, i loro figli, rispettivamente il futuro padre e zio di amal, ancora giovanissimi, pieni di vita e di speranze per il futuro. il rapporto con lə ebreə, fuggitə dall'europa per scappare alle persecuzioni naziste, sembra idilliaco e si riassume nell'amicizia tra hassan e ari, un ragazzino che porta nella gamba offesa e nell'andatura zoppicante il ricordo delle violenze sopportate in germania.
a completare questo primo quadro, arriverà presto dalia, una ragazza beduina tanto bella quanto testarda e ribelle. riuscirà a rubare il cavallo di darwish e il cuore di entrambi i fratelli ma, alla fine, sposerà hassan. poco dopo quel matrimonio cambia tutto: lə sionistə invadono città e villaggi con il loro esercito messo insieme in fretta ma con enorme efficienza, mentre il mondo si accorda per riconoscere la legittimità della creazione di un nuovo stato in quelle terre che da generazioni e generazioni erano appartenute allə palestinesə, lasciando lə abitantə alla mercé delle aggressioni.

nelle prime, poche pagine, susan abulhawa consensa la storia delle radici di amal e, allo stesso tempo, dipinge una palestina libera e ricca di tradizioni che non sa ancora di correre verso la catastrofe fino a che non si presenta all'improvviso, rivelandosi attraverso le facce di soldati che feriscono, uccidono, distruggono. e rapiscono.
perché lì dove ci sono coppie benedette dall'arrivo di figliə tanto desideratə, ce ne sono altre, come moshe e jolanta, che pregano invano per anni e anni, finché la guerra e la sopraffazione, finché l'idea di essere in diritto di prendere quello che si vuole, qualunque cosa sia, senza pagarne le conseguenze, non aprono uno spiraglio terribificante alla risoluzione di tutti i loro problemi, stravolgendo del tutto e per sempre la famiglia hassan e dalia.

la storia della famiglia di amal e dei suoi fratelli yussuf e isma'il, si intreccia con quella della palestina intera: l'esilio e la perdita della propria terra coincidono con una perdita della propria identità, della parte più profonda del proprio essere. dalla guerra del 1948 tutto cambia repentinamente, ma di quel passato lontano e perduto ad amal restano soltanto i ricordi conservati nelle pieghe dei racconti e degli volti anziani che guardano dove lei non ha fatto in tempo a posare il suo sguardo. da quel momento, ai paesaggi tranquilli e familiari di 'ain hod si sostituiscono quelli del campo profughi di jenin, fatti di strade strette e muri che sorgono come una condanna all'immobilità, all'impossibilità del ritorno, fatti di check-point e di fucili spianati dei militari israeliani che controllano, picchiano, abusano, in un continuo tentativo - mai realmente realizzato - di estirpare dallə palestinesə ogni traccia di umanità, di forza e di speranza.

la storia di amal si sposta tra jenin e l'america e, allo stesso modo, il suo desiderio di aggrapparsi alle radici si alterna al bisogno di una vita più semplice, una vita senza esili, senza mortə da piangere e senza timore di aggiungere ogni giorno nomi a quella lista. una vita che non sia segnata dalle cronache dei giornali, un'identità facile da portarsi addosso come quella di chiunque altrə, un'esistenza che non parli di storia, di politica, di accuse e di commiserazione.
la sua storia è anche una storia di legami familiari e materni: il difficile rapporto con dalia, la madre distrutta dalla perdita che diventa incapace di manifestare amore, si riflette nella relazione tra amal e sua figlia sara. come si può essere felici e amare ancora quando tutto alle nostre spalle è sangue e dolore e rovine e perdita? la sofferenza diventa una prigione per i sentimenti di amal, una gabbia le cui sbarre dovranno essere spezzate poco alla volta fino a lasciare libere le parole e i gesti d'affetto, per non rivivere con sara quello che, da bambina, è stato con dalia.

susan abulhawa non perdona lo stato di israele per le sue atrocità, non giustifica lə nemicə del suo popolo. se pure c'è comprensione per jolanta e moshe, le loro azioni non vengono perdonate. e l'unico percorso di redenzione all'interno della storia è compiuto più in virtù dei legami di sangue, di una sorta di destino ineluttabile, che non per una qualche idea di giustizia.

ogni mattina a jenin racconta la storia di una donna, la storia della sua famiglia e della sua terra, racconta la storia di quella che è forse la più crudele di tutte le ingiustizie o forse solo quella più recente, in cui - da occidentalə - ci sentiamo inevitabilmente invischiatə.
yehya e bassima, hassan, darwish e dalia, amal, yussef e isma'il e poi ancora fatima e filastin, huda e majid e tuttə lə personaggə che animano le pagine di questo romanzo lə rivediamo in questi giorni nei video e nelle foto che circolano a centinaia sui social, immagini strazianti di una sofferenza neppure lontanamente immaginabile che ci lasciano senza parole, che scavano un buco al centro del petto dal quale scivolano via fiducia e speranza. perché un mondo che permette tutto questo, che appoggia tutto questo, che arriva a negare l'evidenza per preservare i suoi interessi più biechi, è un mondo nel quale non si può più credere.
e in un mondo così ci possiamo salvare solo se salviamo l'umanità, la nostra e quella dellə altrə, solo se impariamo a raccontare le storie, la storia, quella dei manuali e delle cronache, con le parole giuste. susan abulhawa ci riesce benissimo, leggete questo libro.

mercoledì 15 novembre 2023

antropologia dei social media

l'introduzione e la diffusione di un nuovo strumento di comunicazione sono sempre state accompagnate da un importante dibattito: è avvenuto per l'introduzione della scrittura nelle culture orali, per l'invenzione della stampa a caratteri mobili nel quattrocento, poi con l'avvento dei nuovi mezzi di comunicazione di massa nel novecento e oggi con la diffusione dei cosiddetti new media.

siamo creature incredibilmente incoerenti, al punto tale da definirci come la specie che più di ogni altra è votata al progresso, che - anzi - si definisce proprio per le sue capacità di progredire e svilupparsi in ogni ambito del sapere, ma che contemporaneamente non fa che vedere in ogni manifestazione di questo andare avanti un pericolo tale da portare alla dissoluzione stessa della nostra umanità.

come spiegano bene biscaldi e matera, solo nell'ambito della comunicazione questa cosa è successa praticamente ogni volta che una nuova tecnologia ha fatto il suo ingresso sul palcoscenico della storia: così la scrittura è stata accusata di distruggere le capacità mnemoniche della gente e di disumanizzare la conoscenza; la stampa venne vista, soprattutto dalla chiesa, come una minaccia nei confronti delle persone poco acculturate che venivano per la prima volta a contatto con il sapere e che quindi dovevano essere protette (ovvero, a cui doveva essere negato l'accesso alla lettura); i media ormai tradizionali come tv e radio sono stati accusati di far perdere la necessaria riflessività e coerenza dei testi scritti, proponendo una comunicazione incoerente che mina la capacità di concentrazione del ricevente e, per di più, sono stati visti come distrattori e distruttori dell'unità familiare, capaci di scoraggiare la coesione dei gruppi a vantaggio di un interesse unidirezionale verso le macchine e, infine, come unica (o quantomeno principale) causa di globalizzazione culturale e assottigliamento sui valori occidentali da parte di tutto il mondo. critiche che si sono ingigantite a dismisura poi con l'avvento di internet prima e dei social media poi.

sarebbe da sottolineare anche come ogni dibattito di questo tipo, soprattutto nel nostro moderno e illuminato paese, si ponga puntualmente come una guerra generazionale in cui, da un lato, i vecchi saggi (il maschile è voluto) avvertono lə giovanə dei rischi che corrono e dall'altro - per fortuna - lə giovanə in questione se ne fregano allegramente della miopia di chi pretende di rimanere ancorato a un presente che si rifiutano di riconoscere come ormai trapassato (considerazioni mie che non troverete nel libro, lo dico in difesa delllə autorə e della loro professionalità).

antropologia dei social media parte proprio dalle critiche mosse agli strumenti forse più usati e diffusi al mondo negli ultimi anni per decostruire alcune idee pregiudizievoli nei loro confronti e mostrarne aspetti che spesso, probabilmente, non teniamo troppo in considerazione, ovvero i social network.
come qualsiasi altro media, il loro utilizzo non sostituisce mai completamente le vecchie tecnologie ma si intreccia a queste - pensiamo, ad esempio, all'abitudine di commentare online programmi televisivi molto seguiti o di utilizzare i social per parlare di altri strumenti di comunicazione ben più antichi, i libri (cosa che facciamo parecchio da queste parti). allo stesso modo, il linguaggio proprio dei social si affianca a quello proprio di altri mezzi comunicativi e di altri registri, arricchendo - e non impoverendo - le nostre possibilità espressive e, se da un lato si perde una certa soggezione alla norma, dall'altro va riconosciuto che la scrittura diventa pratica giornaliera per molte più persone di quanto non lo fosse prima, con tutti i pro e i contro che questo comporta.

un aspetto fondamentale, a mio avviso, della riflessione sui social media è racchiuso nella frase
è importante spostare la nostra attenzione da !cosa i media fanno alle persone" a "cosa le persone fanno con i media"
spostando il focus dalla deresponsabilizzazione con cui additiamo i social per ogni problema alla ricerca delle vere cause dell'impoverimento culturale, lessicale e comunicativo che di solito imputiamo all'uso della rete (forse, e dico forse, potremmo dare un'occhiata ai programmi scolastici?). inoltre, i social media non costituiscono una realtà nettamente separata da quella del mondo fisico ma sono una parte fondamentale della nostra esperienza che si interseca continuamente con ogni altra nostra azione. di conseguenza, anche le accuse di globalizzazione del pensiero devono cambiare obiettivo: se consideriamo i social come parte della nostra vita quotidiana, inevitabilmente dobbiamo tenere in conto quanto le nostre abitudini, i nostri stili di vita, le nostre ideologie, eccetera influiscono sul modo in cui viviamo negli spazi sociali digitali, rendendoci conto, come dicono lə autorə, che l'uso dei social, i contenuti che creiamo e di cui usufruiamo, cambia al cambiare del contesto in cui vengono utilizzati, perché diversi sono i modi in cui li utilizziamo, i bisogni che ci portano a usarli e gli obiettivi a cui miriamo, siano questi la necessità di essere costantemente connesso con lə altrə, quella di informarsi o di mantenere contatti con conoscenti e familiari lontanə, eccetera.

anche le critiche sulla spinta che i social darebbero ad esasperare il nostro individualismo e ad impoverire la nostra capacità di pensiero critico possono essere facilmente smontate se osserviamo con attenzione l'uso che si fa dei social: se è vero che da un lato questi aspetti esistono, è anche vero che i social network permettono di fare rete, ampliare o rinforzare i legami che le distanze fisiche renderebbero impossibili da creare o da mantenere nel tempo, tenendo in considerazione che
i social media sono sociali. questo significa che tutto ciò che le persone fanno online sempre e comunque si intreccia, deriva, rimanda a quello che fanno offline e viceversa
e che consentono di entrare a contatto con informazioni che altrimenti non sarebbero così ampiamente disponibili a tuttə. tutto questo contribuisce a creare la nostra identità, un'identità che si basa sulle esperienze e le conoscenze tutte, a prescindere dall'ambiente in cui si verificano: il nostro stesso essere politico è intrecciato con la comunicazione digitale, basti pensare all'attivismo digitale o al ruolo che i social hanno avuto, ad esempio, come ricordano lə autorə, durante il periodo della primavera araba, o anche oggi, dove i social sono l'unico spazio in cui è possibile riuscire a informarsi da fonti dirette sul genocidio in corso in palestina.

l'idea di fondo è, quindi, infinitamente semplice ma non altrettanto scontata: come ogni tecnologia, i social media vanno indagati da un punto di vista scientifico e scevro da facili pregiudizi, tenendone in considerazione la complessità anche da un punto di vista antropologico e sociale.

lunedì 6 novembre 2023

the witch's heart - la leggenda di angrboda

"molto tempo fa, agli albori di asgard, quando gli dèi erano giovani, una strega arrivò dai confini del mondo."

angrboda - foriera di sventure - è il nome che si è scelta, rilegando nel suo immeritato passato il nome di gullveig - assetata d'oro - che odino le aveva ingiustamente imposto. ed è da odino che arrivano le sventure che angrboda porta con sé, dal suo ostinato desiderio di impadronirsi del potere della strega, della capacità di raggiungere quel luogo oscuro e misterioso in cui è possibile conoscere il futuro, fino alla fine degli dèi e dei nove mondi. tre volte, per colpa di odino e della sua prepotenza, angrboda è bruciata sulla pira, tre volte, grazie alla sua saggezza e al suo potere, ha salvato sé stessa.

la storia di the witch's heart inizia quando, di solito, le storie delle streghe finiscono.
sopravvissuta al suo terzo rogo, (quella che presto sarà) angrboda raggiunge la foresta di ferro, ai confini della terra dei giganti, jotunheim. qui, ai confini del mondo, in fuga dal padre degli dei, la trova loki, fratello di odino e dio degli inganni, giunto a restituirle il cuore che era rimasto sulla pira.
l'incontro con loki - che la spingerà a scegliersi un nome - e poi quello con skadi, una gigantessa anche lei come angrboda ed esperta cacciatrice, trascineranno la strega della foresta di ferro ad avere un ruolo fondamentale nel ragnarök, il crepuscolo degli dèi, la fine dei mondi.

ancora ignara di tutto però, angrboda decide di stabilirsi nella foresta e fin da subito la presenza di skadi è fondamentale per lei: la cacciatrice l'aiuta a costruire un rifugio all'interno di una grotta, a procurarsi il cibo e a commerciare le sue pozioni, che nel giro di poco tempo diventano sempre più famose e richieste. i primi anni trascorrono così, alternando la compagnia dell'amica con quella di loki.
se l'amicizia con skadi sboccia in uno scambio di poche battute, il rapporto con il dio degli inganni segue un percorso tortuoso e lento, scandito dal ritmo indecifrabile delle sue visite che lo vedono ogni volta malconcio, punito dagli dèi per uno dei suoi non troppo apprezzati scherzi. nonostante le ferite, le trasformazioni e le umiliazioni che è costretto a subire, loki non riesce a cambiare la sua natura e la caverna di angrboda diventa presto così il suo unico rifugio. la loro amicizia, presto, si trasforma in desiderio e amore, un amore che segna il punto di non ritorno del destino di angrboda e di tutta la realtà.

mentre una presenza oscura la perseguita nel mondo del sogno, forzandola a rivelare il suo potere e a scoprire il più lontano dei futuri, angrboda dà alla luce la piccola hel, strappandola con la sola forza della sua volontà e della sua magia alla morte che insegue la bambina ancor prima della sua nascita. hel cresce, nonostante la metà inferiore del suo corpo sia irrimediabilmente morta e abbia bisogno delle pozioni della madre per non decomporsi, e fa innamorare di sé il padre - che intanto, ad asgard, ha sposato un'altra donna. nonostante il dolore per il senso di tradimento, agrboda continua ad accogliere loki nella sua caverna, dando vita a fenrir, un cucciolo di lupo con gli stessi occhi di loki, e a jormungand, un serpente che ama il tepore e la dolcezza del corpo di sua madre.
scivolando sempre di più nell'oscurità dei sogni e dell'inconoscibile, angrboda riesce a vedere il futuro dellə figliə, degli dèi e della realtà tutta, un destino già conoscibile, scritto e immutabile al quale, crede, è inutile opporsi. vede fenrir diventare così grande da poter racchiudere cielo e terra tra le sue fauci, e jormungand crescere tanto da riuscire a stringere tra le sue spire il mondo intero. vede hel, sola, nel regno dei morti e loki imprigionato e torturato per ripagare l'ultimo dei suoi crimini, il gesto che darà il via al ragnarök stesso.

ma a cosa serve poter vedere il futuro se non può far nulla per cambiarlo? e a cosa servono tutti gli sforzi fatti per proteggere lə suə figliə, per nasconderlə da odino, se la loro sorte è già stata decisa?

probabilmente essere quasi del tutto a digiuno di mitologia norrena mi ha fatto apprezzare questo libro ancora di più. non conoscevo la storia di angrboda, ricordavo solo vagamente qualcosa sullə suə figliə e sul ragnarök, quindi mi sono immersa nella lettura senza sapere esattamente cosa aspettarmi. non so quanto il romanzo sia attinente al mito ma, per fortuna, non stravolge troppo alcuni passaggi fondamentali - e forse anche i più noti - della storia.
ho amato, poi odiato e poi amato ancora angrboda, un personaggio che, per quanto sappia già che il suo ruolo è già deciso, sfida il destino stesso per amore. l'amore che muove angrboda, però, non è quello romantico. per quanto i suoi sentimenti per loki non riescano mai a spegnersi, neppure davanti al peggiore dei tradimenti (e no, non mi riferisco alla sua seconda moglie), angrboda ha abbastanza spazio nel suo cuore per molti altri tipi di amore: c'è quello per lə figliə, in particolare per hel, c'è quello per skadi, e c'è quello per sé stessa, una sorta di amor proprio che non è mai stupido orgoglio ma che si traduce in saggia consapevolezza dei propri poteri. angrboda sa chi è e cosa è capace di ottenere, conosce la sua magia e possiede una volontà inscalfibile ed è per questo, e non certo per un disperato rifiuto della realtà - che sfida quel destino che neppure odino può cambiare.

genevieve gornichec regala a un personaggio che - come spiega nell'appendice al romanzo - viene menzionato appena un paio di volte nelle due versioni dell'edda, sempre e solo come madre dei mostri, un ruolo di protagonista e un ritratto a tutto tondo che restituisce a lei - ma anche a hel, a fenrir e a jormundand - la dimensione umana che il mito aveva loro sottratto.
ed è restituendo profondità alla sua protagonista e allə altrə personaggə che gornichec dona al mito un tono differente, più umano e profondo, dando importanza ai legami, alle cause e agli effetti, alle forze che spingono il destino più che esserne passivamente sospinte.
è forse qui la forza di the witch's heart, nel mutare il significato della parola "inevitabile": il futuro non si può cambiare ma non per via di una qualche entità superiore e capricciosa che gioca con le vite altrui ma per via di quei legami d'amore indissolubili che non posso piegarsi davanti a nulla, così forti da riuscire a guidare l'intero universo verso le fiamme della rinascita.