venerdì 18 ottobre 2024

il libro della scomparsa

«come se il buio li avesse inghiottiti. come se il mare li avesse rapiti». così hai descritto i tuoi giorni e la gente che era stata cacciata via al di là del mare. non hai detto che il numero di abitanti si era ridotto da più di centomila a circa quattromila persone. no, non lo hai fatto. hai detto, invece, che senza di loro non riusciti più a riconoscere la tua città.

leggere il libro della scomparsa allo scoccare del primo anno del genocidio in palestina - l'ultima fase, almeno, del genocidio, la più feroce e palese di settantasei anni di occupazione, l'unico genocidio della storia trasmesso in diretta e comunque ignorato se non addirittura giustificato dalle potenze occidentali - è stata un'esperienza dolorosa quanto illuminante.
al di là della trama, ibtisam azem parla di contrapposizioni assolute: esistenza e assenza, presenza e memoria, parola vibrante e ricordo sepolto.
il diario - contenitore prezioso di memorie lontane - e il giornale - quello che, un giorno dopo, è già carta straccia.
stretti nella stessa fascia di terra, schiacciati da leggi ingiuste e inumane, palestinesə e insraelianə si dividono il medesimo spazio-tempo, coesistono, senza riuscire davvero a vivere insieme, senza che una parte riesca a mostrare la sua verità all'altra, neppure quando tra alcunə di loro si creano dei legami.

alaa e ariel sono, in qualche modo, amici. vivono nello stesso palazzo ma si sono conosciuti per caso a una festa noiosa e, da quel momento, hanno stretto un rapporto che somiglia a quello di tantə altrə, fatto di chiacchiere e scambi di idee. eppure, nonostante abbiano imparato a conoscersi bene e si ritrovino a condividere un legame, non riescono a sintonizzarsi sulla stessa frequenza quando il discorso tocca la questione dell'occupazione, della nakba, di quell'evento che è insieme storia e presente.

è attraverso le loro parole, soprattutto quelle di ariel, che azem ci racconta della scomparsa.
succede in una notte qualsiasi, senza che niente potesse destare sospetti, senza clamore né agitazione. tuttə lə palestinesə dei territori occupati spariscono senza lasciare traccia.
il giorno dopo il paese sprofonda nel caos: scomparsə lə braccianti nei campi, neanche l'ombra di operaiə o autistə, chiusi i bar e i ristoranti. le case sono vuote, le tracce di una quotidianità inspiegabilmente interrotta restano sparse tra i piatti ancora da lavare, nei libri letti a metà, in mezzo alle lenzuola disfatte.
si direbbe che israele ha vinto.
dopo settantasei anni di occupazione, di guerre e di attentati, di trattati più o meno rispettati, di convivenza forzata, di odio quotidiano, il paese intero adesso è suo, lə arabə che da decenni cercavano di cacciare via sono andatə, chissà dove e chissà come.
vittoria! no?
in realtà no.

la scomparsa dellə palestinesə getta israele nel panico, uno stato di paura e agitazione, la sensazione di minaccia è, paradossalmente, aumentata: sono sparitə, sì, ma perché? come? torneranno? e allora cosa succederà? e se non torneranno, cosa dirà il resto del mondo? cosa farà? cosa faremo?
ma soprattutto, se non torneranno, cosa resterà di un popolo che da settantasei anni fa della dominazione di un altro popolo il suo motivo stesso di esistere?
le parole dellə personaggə israelianə, per tutto il libro, sono venate di vittimismo. quello della shoa non è solo il tremendo passato dei loro avi ma il tappeto sotto cui nascondere i crimini di oggi. e se pure di questi crimini lə israelianə non parlano mai apertamente, è facile scorgerli nella paura costante delle ritorsioni, delle cospirazioni che vedono ordite ovunque contro di loro.

occupazione e colonizzazione vengono romanticizzate nelle parole di ariel.
parole, è importante sottolinearlo, perché è lui - ariel - quello che può ancora parlare, quello che è presente. in quelle parole non c'è spazio per termini come sterminio, catastrofe, genocidio, crimine. si invoca un futuro di purezza e pulizia senza esplicitare il paragone tra lə palestinesə e le "impurità" di cui hanno necessità di liberarsi. le parole di ariel sono, per estensione, quelle di tutto il popolo israeliano: stessi termini, stessi pensieri, stessa dottrina.
neppure adesso che il sogno si è realizzato, israele riesce a guardarsi allo specchio e riconoscersi come invasore e colonizzatore:
perché le madri palestinesi mandano i loro figli a tirare le pietre o compiere atti terroristici contro di noi? non capisco perché insistono a venire ogni giorno ai checkpoint e combatterci [...] in base alla mia esperienza come soldatessa, ho la sensazione che ai palestinesi piaccia essere malmenati e torturati oppure picchiare e offendere gli altri. altrimenti non si spiegherebbe il fatto che insistono con tutta questa violenza.
le parole di una soldatessa che risponde a un'intervista sono agghiaccianti, quasi da distopia, eppure - lo stiamo vedendo da più di un anno - corrispondono alla reale percezione dei fatti. l'indottrinamento israeliano è così potente da distorcere la realtà, da creare un sistema tale di pensiero da trasformare la vittima in aggressore e il colonizzatore in vittima.
ma queste storie che ariel e lə altrə israelianə si raccontano sono utili, sono necessarie. hanno bisogno di crederci, hanno bisogno di credersi vittime, di credersi superiorə e civilizzatorə di un mondo arretrato e primitivo. la loro è una fede, rifiutano l'indagine per gettarsi a capofitto della fede cieca a un'interpretazione della storia - recentissima, praticamente della cronaca - per far fronte alla realtà delle cose.
con che coraggio ci si può guardare allo specchio e riconoscersi figliə e nipote di colonizzatori, assassini, coloni? come potrebbe ariel considerare suo nonno un vecchio inglese razzista e invasore, e non un eroico israeliano che ha messo in gioco la sua stessa vita per riscattare la sua terra promessa?
ariel dice di non sopportare le "lagne" di alaa e dellə altrə palestinesə e in questa sua insofferenza cela la paura di confrontarsi, il terrore di scoprirsi dalla parte del torto.
non è un uomo crudele, è soltanto un vincitore che non ha il coraggio di ammettere il prezzo della sua vittoria.

scompaiono lə arabə, si zittiscono le loro voci e, contemporaneamente, si alzano quelle dellə israelianə. chi dissente, però, dal pensiero comune di glorificazione dei padri fondatori e dei coloni, viene inevitabilmente considerato nemico della sua stessa nazione. è a uno di questi personaggi che azem fa pronunciare, verso la fine del libro, le parole che sgorgano spontaneamente dal cuore (almeno, a chiunque non abbia un cuore non corrotto):
se esistesse un premio per lo stato più moderno e razzista che considera se stesso una "democrazia", il nostro paese lo vincerebbe di sicuro. [...] dovremmo sbarazzarci del complesso della vittima. non siamo vittime!
e mentre giornali, radio e tv continuano il loro ping pong di accuse, paranoia e supposizioni, ariel legge il diario di alaa. l'ha trovato per caso, cercando in casa dell'amico qualche traccia che lo aiutasse a scoprire la verità sulla scomparsa impossibile di centinaia di migliaia di persone.
quel diario è l'ultima voce di tuttə quellə che sono scomparsə, di tuttə quellə le cui voci sono sempre state silenziate o ignorate. lə palestinesə non parlano, ricordano, e lo fanno nel silenzio delle loro menti.

se ariel è la parola che viene pronunciata con leggerezza, il suono - qui e ora - figlio dell'abitudine a ripetere ciò che una certa ideologia ha tramandato, è la parola scritta sulla carta da sue soldi del giornale, parola che dura un giorno, alaa è la memoria di generazioni, sedimentata nell'animo, nutrita dal tempo, dal silenzio, dalla conoscenza e dalla riflessione.
il grosso quaderno con la copertina rossa è, in realtà, una lunga, lunghissima lettera che alaa scrive alla nonna ormai morta. nel filo che connette nonna e nipote, si tiene in equilibrio tutta la storia della palestina dal 1948 a oggi, le parole - scritte in segreto - di alaa si trasformano in quelle di tutto un popolo inghiottito dal nulla.
della tua memoria mi tornano in mente alcune storie, che ho sentito o letto, o che ho inventato quando ero stanco. ho l'impressione che le storie più belle siano quelle che inventiamo. [...] quelle che viviamo sono mutilate, persino quel che ho vissuto io lo è. come se la mia memoria fosse una casa di vetro che, per quanto piena di incrinature come rughe, ancora si regge in piedi, non crolla. riusciamo comunque a vedere attraverso quel vetro, ma c'è qualcosa di offuscato, confuso [...] la confusione a volte è dovuta al dolore che è più forte di quel che riusciamo a mantenere nel ricordo. e così chiudiamo la memoria in una scatola nera nella testa e nel cuore, ma fa male, ci divora dall'interno, ci corrode giorno dopo giorno. ci corrode, sì. qualche volta mi domando perché provo tutta questa tristezza. da dove viene? e di colpo mi rendo conto di conoscere la risposta: la tua memoria mi fa male, e la mia mi pesa.
attraverso i paesaggi di giaffa/tel aviv, alaa racconta i brandelli di storia strappati alla memoria di sua nonna, la trasformazione della città e quella della vita dellə suə abitantə dalla nakba in poi.
è una memoria che scorre di generazione in generazione, attraverso i racconti tanto quanto dentro ai silenzi, alle metafore, al non-detto e al non-dicibile.
guardando tel aviv, si vede giaffa in trasparenza: la felicità perduta, la catastrofe e l'occupazione stanno tutte insieme contemporaneamente nelle stesse strade, negli stessi spazi. la memoria ricompone geografie urbane perdute, nomi di strade cancellati e sostituiti, scene ormai lontane nel tempo e che mai più saranno.

per ariel il passato è superfluo, il noioso argomento su cui lə palestinesə continuano a insistere e insistere, ma per alaa il passato è fondamentale.
sono le sue radici, la storia della sua famiglia, il motivo scatenante delle storie che sua nonna ingoiava per non lasciarle più uscire. il passato è la chiave che apre la porta sulla verità delle cose, ed è per questo che c'è chi vi si aggrappa con tutte le sue forse e chi, invece, lo vede solo come un ingombro fastidioso e fa di tutto per dimenticarlo e mistificarlo:
si ricordò che una volta [...] alaa era sbottato quando lui gli aveva chiesto di piantarla con quella storia che tel aviv era giaffa con le sue borgate limitrofe. doveva essere un uomo contemporaneo che guarda avanti e non si lascia ostacolare dal passato. [...] alaa era andato su tutte le furie come mai prima di allora [...] «cosa significa che devo essere contemporaneo? che devo distendermi a pancia sotto? che puoi fare a brandelli la mia dignità e io intanto dovrei applaudirti? quando capirai che tel aviv è la bugia a cui tutti hanno creduto? e poi giaffa non era solo frutteti, e se anche fosse stata soltanto un deserto, questa menzogna a cui avete creduto non ci dà il diritto di ucciderci e cacciarci. lo sai? se anche fossimo le persone più arretrate al mondo, questo non vi darebbe il diritto di espellerci! non vi darebbe il diritto di ammazzarci! andate a combattere contro l'europa che vi ha cacciati e uccisi!»
l'amicizia tra ariel e alaa è, in qualche modo, reale e sincera. ma è avvelenata dal sionismo e dalla bugia che ha riscritto la storia ribaltandola, provando a consegnare alla memoria dei nuovi ebrei israele come stato legittimo e lə palestinesə come occupanti. una bugia a cui hanno scelto di credere, giorno dopo giorno.

il diario di alaa stilla dolcezza e amarezza per la nonna e per il destino di un popolo intero, è imbevuto d'amore e di tristezza per ciò che è perduto per sempre. alaa scrive spesso "capisco", che si contrappone alla frase più usata dallə personaggə israelianə del libro "non capisco perché". facendosi contenitore dei ricordi che la nonna gli ha donato nel corso degli anni, accudendo le sue parole e suoi segreti, ereditando il peso della sua memoria, alaa si fa carico non solo dell'umanità schiacciata del popolo palestinese ma anche di quella ripudiata e abbandonata dallə israelianə a cui non importa altro che continuare a credere alla loro bugia, anche a costo di perdere sé stessə.
fa male leggere il tono paternalistico con cui ariel affronta i pensieri dell'amico, il senso di malcelata superiorità con cui affronta i suoi ricordi e le sue parole. essere meno mostruoso - come quando, da soldato, alza la voce davanti all'assassinio di un adolescente palestinese - lo fa sentire vicino ad alaa ma non abbastanza da comprenderlo pienamente.

quasi senza rendersene conto, come se fosse nel naturale ordine delle cose, ariel prende possesso della casa del suo amico scomparso, vìola il segreto del suo diario e dei suoi ricordi più intimi e non per cercare - anche se troppo tardi - di comprenderne il punto di vista, ma solo per avere materiale per scrivere i suoi articoli di giornale, per trovare lo scoop in questo gigantesco e incomprensibile caos.
la scomparsa dellə palestinesə è letta in molti modi: una minaccia, una liberazione, un sollievo, qualcosa di cui non preoccuparsi troppo. in nessun caso, mai, si alza dal coro la voce di chi vede come una tragedia epocale - neppure per l'eventuale paura che possa ripetersi e riguardare loro - la sparizione repentina e irrazionale di migliaia di esseri umani.
ibtisam azem non lo dice, ma il senso di tutto questo è chiaro.

non so se fosse questo l'intento ultimo dell'autrice, ma ne il libro della scomparsa ho voluto trovare un barlume di speranza, nascosto proprio come la nonna di alaa nascondeva i suoi ricordi e come alaa stesso nascondeva i propri sentimenti nelle pagine del suo prezioso diario.
quello che accade, la scomparsa dellə palestinesə, getta israele nel caos e toglie l'elemento chiave della sua stessa esistenza come stato occupante, coloniale e militarizzato. non ci è dato sapere cos'è questa scomparsa, come è avvenuta e per quale motivo, sappiamo solo che - nel romanzo - ha stravolto l'ordine delle cose.
quello che spero che accadrà - presto! - fuori dalle pagine di ogni possibile romanzo o giornale è che un qualche altro evento - forse altrettanto inimmaginabile e inspiegabile come la scomparsa - possa stravolgere l'ordine delle cose anche nella realtà, possa strappare il velo che riesce ancora a mistificare l'orrore e far crollare il peggior regime terrorista che ancora oggi insanguina strade, storie e memorie.

giovedì 17 ottobre 2024

stranimondi 2024 ~ un racconto per (poche) immagini

sabato 12 e domenica 13 ottobre c'è stato uno dei miei appuntamenti preferiti dell'anno, ovvero stranimondi, giunto quest'anno alla sua decima edizione (la terza per me).

foto di rito alla locandina

per chi non lo sapesse, stranimondi è una fiera/festival/convention dedicata alla letteratura fantastica, anzi, forse sarebbe meglio dire che è la fiera del fantastico (e - gioia, gaudio e tripudio! - sarà di nuovo accompagnata dalla sua sorellina minore marginalia, che si terrà, sempre alla casa dei giochi di sesto san giovanni, il 29 e 30 marzo).

la cartolina che più aspettavo mi è stata regalata proprio appena sono arrivata!

stranimondi è bellissima perché a) è piena di libri belli e b) è piena di gente bella appassionata di libri belli, che li legge, li scrive, li pubblica e ne parla. a stranimondi è facile trovare anime nerd-affini che poi diventano amicə insostituibili - perché basta poco a riconoscersi tra stranə - ed è altrettanto facile ritrovarsi con il portafogli vuoto e lo zaino pieno di libri.

a parte che è evidente che non sono capace di sorridere davanti a un obiettivo, stranimondi è stato il posto dove ho conosciuto stella dello scartafaccio e gloria e sephira di moedisia

ma soprattutto, stranimondi è bellissima perché è la migliore espressione di come il fantastico sia molto di più di un'evasione dalla realtà, anzi, sia uno specchio per guardare alla realtà e provare a comprenderla cambiando la nostra prospettiva. in questi giorni (proprio come era successo gli altri anni) si è parlato di transfemminismo, di cambiamento climatico e ecologia, di diritti civili e sociali. anche se il clima era quello di una grossa, lunga festa, non sono mancati i simboli di sostegno alla palestina perché sì, ci piace evadere dalla realtà ma non abbiamo nessuna voglia di girare lo sguardo dall'altra parte e far finta di non vedere.

quest'anno è stato palese che stranimondi sta crescendo sempre di più e sta diventando una realtà importante: sempre più editori, un programma di panel, incontri e presentazioni molto ricco e variegato, gente che viene un po' da tutta l'italia e - cosa che mi era mancata le volte scorse - un po' di materia prima per gossippare nelle prossime settimane (di cui vi parlo un po' più giù).
il problema è che se cresce stranimondi, non cresce la casa dei giochi. lo spazio è molto bello, ha l'atmosfera giusta e i giardinetti esterni con le loro sedie, tavoli, panche e biliardini, sono perfetti sia per decomprimere un po' che per cianciare in tranquillità. però purtroppo, vista l'affluenza di pubblico (stime non ufficiali vogliono circa 2000 ingressi quest'anno, ma dall'interno sembrava ci fosse almeno un milione di persone!), lo spazio interno diventa scarso, soprattutto la sala centrale quella in cui, ovviamente, si raduna più gente.
per chi, come me, è piccolinə, sabato è stato difficile riuscire a muoversi tra la folla, evitare le gomitate in faccia e respirare. per le persone disabili e/o neurodivergenti, sabato è stato ingestibile e non credo di essere stata l'unica a passare buona parte del tempo nei giardini.

ghiandina-souvenir raccolta in uno dei giardini

è innegabile che l'organizzazione negli anni sia riuscita a calamitare l'attenzione del pubblico con enorme successo, però questo dovrebbe significare anche cominciare a prendere in considerazione l'idea di allestire la fiera all'interno di uno spazio più grande e accessibile, magari mantenendo sempre la possibilità di un luogo all'aperto in cui chiacchierare e rilassarsi, e magari anche più facile da raggiungere per chi arriva a milano centrale (la metro di milano continuerà a essere protagonista dei miei incubi ancora a lungo, ne sono sicura)
creatorə di stranimondi, se mi leggete pensateci!

a questo giro ho tenuto la mia irrefrenabile voglia di shopping a bada per due motivi: a) lo zaino dovevo trascinarmelo da sola poi fino a bologna e b) qui ho solo uno scaffalino minuscolo e già quasi del tutto pieno.
ho preso solo due libri - lasciandone a malincuore uno sfacelo negli stand - ma la mia wishlist si è allungata notevolmente!

ecco il mio bottino, piccolino ma interessante

(e, a proposito, ho un appello! se eravate al panel dedicato alle fantascientiste, siete riuscitə a prendere appunti sui titoli consigliati? io ero troppo in fondo e non sono riuscita a sentire quasi nulla, ed è un peccato perché era l'incontro che mi interessava di più!)

io lontanissima, non sentivo niente!

passiamo al gossip: l'evento che ha catalizzato il chiacchiericcio è stato sicuramente quello dedicato al premio urania... o meglio, quello che doveva essere dedicato al premio urania ma che poi è diventato uno sproloquio sulla gestione di urania stessa.
ecco i miei due centesimini sulla questione: è comprensibile essere attaccatə al passato, voler continuare a fare le cose come si sono sempre fatte e non volersi sbattere troppo. io sono la prima che non riesce ad adattarsi alle novità e continuo a tenere questo blog sempre uguale a se stesso, però una cosa è essere una cazzona che scrive un blog, una cosa è gestire la più conosciuta collana di fantascienza d'italia!
il problema grosso di urania è che non sa comunicare online. il blog informa sulle uscite, è vero, ma non basta. ormai i rapporti tra editorə-autorə-lettorə sono cambiati tantissimo, i social non sono semplici vetrine ma piazze di dialogo e confronto e la mediazione operata dallə libraiə - o, come in questo caso, dallə edicolanti - non è più sufficiente. urania dovrebbe guardare a oscar vault, alla community che si è creata intorno alla pagina e prendere spunto (oltretutto si tratta sempre della stessa casa editrice, eh).

altri due centesimini: chiedere di spostare urania dalle edicole alle librerie non risolve il problema, al massimo incrementa quello della sopravvivenza stessa delle edicole che sono, molto spesso, gli unici poli culturali di cittadine e paesi piccolini. senza contare che ci sono anche servizi online (tipo primaedicola) che permettono di recuperare gli arretrati - di urania e non solo. affossare ancora di più una realtà già in difficoltà non è una grande soluzione, va migliorata invece la rete di distribuzione dei libri e soprattutto la comunicazione che se ne fa.
al momento, la risposta di urania alle scarse vendite è stata quella di limitare le uscite di autorə italianə ai solə vincitorə del premio urania, perché "la fantascienza italiana non vende".
io, personalmente, non credo sia vero. almeno, non credo che sia un assoluto. so per certo che un libro di cui nessunə parla e che nessunə conosce vende decisamente poco, ma so anche che la colpa non è del libro in sé ma di chi non l'ha accompagnato nel modo corretto verso lə lettorə.

tornando a stranimondi, l'unica cosa che mi ha un po' amareggiata sono certe dinamiche che bucano la bolla, atteggiamenti che se sui social lasciano il tempo che trovano, nel mondo fisico si trasformano in grosse delusioni. ma, al netto di questo, ho passato due giorni meravigliosi con gente meravigliosa, ho trangugiato così tanto sushi e poke in compagnia da essere a posto per i prossimi mesi, il mio amore per la letteratura fantastica è cresciuto ancora un po' e non vedo l'ora che sia marzo per tornare a incontrare di nuovo tuttə!

soprattutto il mio amico tim!

un po' di altre foto le trovate su instagram!




ps. martedì 15 ottobre claccalegge ha compiuto tredici anni!
per festeggiare questo traguardo ho pensato di aprire una raccolta fondi per l'unrwa, a sostegno del popolo palestinese. la raccolta sarà aperta per un mese, fino al 15 novembre. se vi va, condividete il link anche tra i vostri contatti!

lunedì 7 ottobre 2024

i cento amori di giulietta

appena ho visto helene, ho assaporato sulle labbra il gusto lieve e dolciastro del vino al miele, la reminiscenza di un bacio. succede tutte le volte che lei riappare nella mia vita, un ricordo ostinato che perdura dalla sera del nostro primo incontro, secoli fa.
certo, lei è del tutto inconsapevole della sua identità. o del fatto che la sua presenza - o assenza - nella mia vita abbia plasmato la mia intera esistenza.
oggi sarò pure sebastien, ma in principio il mio nome era romeo.
e il suo giulietta.

leggere i cento amori di giulietta non è stato facile perché ho passato la maggior parte del tempo con gli occhi lucidi e le lacrime sempre pronte a riversarsi giù, in uno stato di totale perdita di contegno e di assenza di vergogna. evelyn skye mi aveva convinta con damsel e adesso mi ha definitivamente conquistata con i cento amori di giulietta che, se da un lato è meno "politico" del primo, dall'altro è riuscito a farmi sentire totalmente coinvolta, trascinata nella storia che stavo leggendo. una storia d'amore bellissima, scritta senza mai scadere nel melenso, senza mai indugiare in scene da vecchio voyer senza scrupoli... e poi, insomma, parliamo della storia d'amore per antonomasia, quella di romeo e giulietta!
anche se in realtà le cose non sono andate proprio come ce le aveva raccontate shakespeare...

helene e sebastien si incontrano per la prima volta in una piccola cittadina dell'alaska. helene è appena arrivata, ha mollato tutto di colpo - il lavoro da giornalista che non decolla mai e, soprattutto, quel bastardo del suo futuro ex marito - e dalla california si è rifugiata nel gelo artico per poter diventare finalmente la nuova versione di sé che aspira a essere - quella che smette di tollerare le cattiverie e i tradimenti del marito, quella che tiene sempre gli occhi bassi, non alza mai la voce, sopporta tutto, non si lamenta mai e non rivendica mai quello che le spetta per diritto - e per scrivere, finalmente, il suo libro.
da quando ha memoria, colleziona brevi racconti, storie d'amore ambientate in tempi e luoghi diversi. helene sa che c'è qualcosa che le sfugge e che collega insieme tutto il materiale che ha accumulato fino ad adesso... ma cosa?
la sua unica certezza è che il protagonista maschile - anche se di volta in volta cambia nome, mestiere, città d'origine eccetera - è sebastien, l'amico immaginario che le fa compagnia e la sostiene di fronte a ogni difficoltà, nato nella sua mente per affrontare la malattia e la morte di suo padre quanto era ancora soltanto una ragazzina.
e adesso, eccolo lì: stesso volto, stessi occhi, stessi capelli, persino lo stesso nome! sebastien in carne ed ossa, dentro lo stesso pub in cui si è rifugiata a mangiare qualcosa di caldo la sera del suo arrivo in alaska, il primo giorno della sua nuova vita
com'è possibile che il suo amico immaginario, il protagonista dei suoi racconti, un personaggio inventato dalla sua immaginazione sia lì di fronte a lei, in carne e ossa?

il loro incontro non è certo una scena da film romantico, anzi. nonostante il destino sembra portarli costantemente una di fronte all'altro, sebastien è sempre scontroso, sgarbato e antipatico. in qualche modo, helene ha la sensazione che anche lui la conosca, ma è evidente che i sentimenti che lei prova per il sebastien che l'ha accompagnata per tanto tempo nella sua fantasia non corrispondono affatto a quelli che il sebastien della realtà prova per lei. ma perché lui è così respingente?

quella di romeo e giulietta è una storia con radici profondissime, che attraversano secoli e continenti. shakespeare fu ispirato dal racconto di questo amore impossibile già noto nel medioevo - ad esempio, dante cita le due famiglie dei montecchi e capuletti (cappelletti) nella sua divina commedia - ma alcunə studiosə hanno trovato echi degli archetipi di questa storia già nella letteratura classica greca e latina.
cambiano i nomi, cambiano i luoghi e le epoche ma l'infelice destino dei due amanti resta uguale.
evelyn skye si inserisce in questa lunghissima tradizione raccontandoci un finale alternativo della tragedia shakespeariana, quello in cui romeo, in realtà, uccide giulietta per sbaglio durante il suo duello con paride e per questo viene maledetto: per quanto ci provi, non riesce a morire e il suo tempo si dilata quasi all'infinito, facendolo invecchiare di un anno ogni cinquanta. in questa vita quasi eterna, romeo è costretto a incontrare ogni volta l'incarnazione di giulietta - ignara della loro vera identità - ad amarla e ad esserne amato, e infine, proprio come la prima volta, a perderla tragicamente.
romeo non può morire, giulietta muore ogni volta.
e adesso, tocca a helene e sebastien recitare sul palco del loro destino: le loro anime sono legate da secoli e anche questa volta non possono restare indifferenti una all'altro. ma qualcosa, adesso, sembra seguire un copione differente. che sia un segno che la maledizione si può spezzare?

sebastien e helene incarnano due prospettive opposte (e l'alternanza delle voci narranti, nel libro, sottolinea al meglio questa differenza): per lui, ogni storia d'amore è destinata a finire tragicamente perché, per quanto follemente si possa amare ed essere amatə, il destino che aspetta ciascuno di noi è sempre lo stesso. helene riesce però a mostrargli l'altro lato della medaglia: non vale forse la pena vivere una vita forse breve, sì, ma che è riuscita a conoscere una gioia così grande e totalizzante come quella che giulietta prova ogni volta con romeo? sebastien guarda verso il futuro colmo di timori e di angosce, vivendo ogni momento come se fosse l'ultimo prima di anni e anni di perdita e dolore, mentre helene è capace di concentrarsi sul presente, di vivere pienamente il momento come se niente, a parte il qui e ora, avesse importanza.

i cento amori di giulietta è un romanzo che - oltre a coinvolgerci in una bellissima storia d'amore - ci spinge a trovare le nostre risposte oltre la parola fine. cosa succede quando una storia finisce, quando si gira l'ultima pagina del libro? ok, lə nostrə protagonistə felici e innamoratə si sono sposati e ora vivranno "per sempre felici e contenti", ma quanto dura questo per sempre? è ovvio che il lieto fine non è davvero la fine e, in questo senso, ha ragione sebastien: ogni grande amore è destinato a finire tragicamente con la morte di unə dellə due amanti, che sia dopo un giorno o dopo decenni. ma è anche ovvio che per lieto fine possiamo intendere anche il compimento di quell'amore, che lo si voglia intendere come il matrimonio, come la nascita di unə figliə o come la realizzazione si qualsivoglia obiettivo che per quella certa coppia ha significato e valore, e qui ci tocca seguire il ragionamento di helene: forse vivremo questa immensa felicità per poco tempo, ma sarà una gioia così grande che nulla ci farà rimpiangere averla vissuta.

evelyn skye ci suggerisce che forse, quello che veramente conta non è tanto il modo in cui decidiamo di interpretare la realtà ma quanto siamo capaci di affrontarla con consapevolezza, e di condividere pienamente e sinceramente questa consapevolezza con chi amiamo e scegliamo come compagnə nella nostra vita. leggere la nota finale è stato un colpo al cuore - le parole di skye sono così autentiche e sincere che è difficile trattenere le lacrime - ma bellissimo. non vi dico altro.
conoscere l'altrə e conoscere sé stessə - così come helene ha immaginato/ricordato tanti frammenti delle sue vite passate con romeo/sebastien - accettare il passato ed essere prontə ad accogliere il futuro con speranza e accettazione, forse è questo che può spezzare la maledizione, che può spazzare via la paura che ci impedisce di vivere le cose per paura di perderle.

mercoledì 2 ottobre 2024

nella verde gola delle lupe

agilulfa alza una mano benedicente. il lupo perde la ferocia e si avvicina mansueto, le posa il capo sul grembo come un cane dopo le botte.
«la buona santa lo legò con la cintura. poi chiamò la gente che accorse con bastoni e coltelli: gli levarono la pelle per donarla alla cacciatrice gentile e ne bruciarono le carni. infine, nella grotta della bestia costruirono il nostro eremo...»

probabilmente pecchiamo di troppa fantasia quando proviamo a immaginarci cosa sarebbe un matriarcato e iniziamo a pensare a pensare a donne libere e felici che danzano nei boschi, senza uomini nei dintorni. ma un sistema matriarcale che semplicemente fa proprie le logiche e gli strumenti di quello patriarcale, non assicurerà alle donne i diritti di libertà, sicurezza e piena realizzazione di sé che chiedono da secoli.
eppure, siamo così stanche di millenni di dominazione maschile che continuiamo a visualizzare nelle nostre menti l'idillio ogni volta che ci ritroviamo a fantasticare su questa parola che tanto ci affascina.

quando ho visto i primissimi annunci di nella verde gola delle lupe, ho iniziato anche io a fantasticare di donne selvagge e libere dalla perenne riduzione di tutto il loro essere al loro ruolo di madri/spose. e ho, colpevolmente, sbagliato.
la comunità che vive nel folto del bosco è una società matriarcale e di sole femmine, ma tutt'altro che libera e selvaggia. le lupe vivono un'esistenza di regole da educande e ruoli ben stabiliti, intimamente connessi ai loro corpi e scanditi dalle trasformazioni fisiologiche che questi subiscono con il tempo. figlie, sorelle, madri, zie, nonne: sono sempre e soltanto qualcosa in relazione alle altre donne che le hanno generate, che hanno generato o con cui hanno condiviso il grembo materno.
il potere, all'interno della comunità, è in mano alle anziane, le quali istruiscono le giovani - scegliendo accuratamente in che modo farlo e cosa escludere da questa educazione - e decidono del loro futuro, se saranno o meno lettrici dell'unico libro in loro possesso, quello che racconta la storia di santa agilulfa e del lupo.

la santa, senza neppure tentennare davanti alla possibilità di conoscere il segreto che la grossa bestia - nera e capace di camminare su due piedi - dice di conoscere e di poterle confidare, la uccide e libera la grotta dove adesso vivono le lupe. perché - duemila anni di cristianesimo ce l'hanno insegnato bene - la donna saggia e giusta è quella che non si lascia trascinare dalla curiosità, uno dei tanti peccati in cui le donne sono così brave a scivolare... agilulfa è la fede e l'obbedienza che rinuncia alla conoscenza.
così le giovani crescono imparando a non fare domande, a fidarsi ciecamente delle altre più grandi, a obbedire, anche quando questo significa reprimere i propri sentimenti per una madre o una sorella morta, o temere quello che non si conosce. obbedire anche quando questo vuol dire ignorare tante cose, anche quelle che riguardano il loro stesso corpo.
cos'è che fa gonfiare il ventre delle madri? come fanno le donne a partorire bambine (perché i maschi vengono puntualmente abbandonati nel bosco, poco importano i sentimenti di una madre, queste sono le regole)? cosa succede alle vergini dopo il primo sangue? cos'è la congiunzione?
le risposte, per noi, non sono poi così difficili da immaginare.

lucrezia pei e ornella soncini immaginano un'italia in pieno rinascimento, anche se collocata in un universo alternativo, in cui, dal disequilibrio numerico tra maschi e femmine, le comunità si sfaldano e nuovi gruppi nascono tra le loro sfilacciature, come quello delle lupe.
quello che però manca a queste donne è la consapevolezza di ciò che sono e un intento politico che possa giustificare il loro modo di vivere e permetterle di figurarsi un obiettivo che sia più di "ci nascondiamo dai maschi ma ci accoppiamo con loro e facciamo accoppiare con loro le nostre figlie". quello che manca è un vero sentimento di sorellanza e fa male, malissimo SPOILER (TW STUPRO) leggere di ragazzine condotte nel bosco da madri e sorelle che finiscono per essere stuprate da uomini sconosciuti di cui, fino a poche ora prima, non sospettavano neanche l'esistenza.
quella delle lupe è una comunità di donne che, in fin dei conti, vivono secondo l'idea patriarcale di donna-utero, di donna destinata a produrre prole (altre femmine-riproduttrici o altri maschi-forza-lavoro), di donna silenziosa, obbediente, di donna che si prende cura delle bambine, delle giovani e inesperte ragazze, delle anziane ormai non più autonome.
fuori da quei ruoli, per le lupe non si disegnano altre possibilità.

al di là della trama, quello che rende difficile la lettura - o, almeno, l'ha resa difficile per me - è un linguaggio volutamente anacronistico e antico che, se da un lato ci lascia percepire la distanza temporale della storia e aiuta a rendere l'atmosfera, dall'altro troppe volte si contorce su sé stesso, finendo per curarsi più della sua forma che della capacità di comunicare, e arrivando spesso a rendere macchinosi e poco chiari alcuni passaggi.

la lettura di questo racconto mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca, mi aspettavo forse un “messaggio” diverso, di rivendicazione di ruoli differenti, non sempre e non esclusivamente di subordinazione, almeno nella dimensione del fantastico, uno spazio in cui è possibile costruire o criticare e non soltanto replicare. mi aspettavo anche che il richiamo alla natura proponesse un rapporto più di tipo “simbiotico” tra donne-bosco-animali, mentre questi esistono solo come prede, per la loro carne o la loro pelliccia, e la vegetazione è giusto un elemento dello sfondo. insomma, forse il problema è stato più nella comunicazione che è stata fatta del libro e il tipo di aspettative che aveva generato (quantomeno in me) che altro. mi ero preparata sì a un viaggio in un passato alternativo e distopico ma anche di vedere una reazione diversa delle personagge alle vicende che sono costrette a vivere.

ultima nota: le illustrazioni di marco calvi mi sono piaciute moltissimo, soprattutto per il modo in cui riprendono e reinterpretano da una parte l'iconografia sacra classica e dall'altra quella quasi "neopagana", molto più vicina ai nostri tempi, trovando un linguaggio visivo coerente e uniforme che raccorda perfettamente le immagini e le inserisce senza soluzione di continuità nel racconto.

giovedì 26 settembre 2024

commenti randomici a letture randomiche (88)

ricordatemi di non lamentarmi più perché non ho niente da fare e mi annoio.
queste settimane sono tremendamente incasinate, ritaglio letteralmente manciate di minuti ogni volta che posso per riuscire almeno a leggere qualcosa, ma scrivere diventa veramente difficile.
però ho letto tre libri molto belli e ci tenevo a scrivere due righe per consigliarveli. perché se togliamo pure i consigli di lettura, la vita diventa davvero troppo triste.

 sierocoinvoltə - la rivoluzione sessuale riparte dall'hiv 
conquistare la consapevolezza è la prima porta di accesso a una salute sessuale piena, e per lo stesso motivo la storia di chi ha incendiato quel desiderio di conoscenza e libertà è una favola di rivoluzione che ci riguarda tuttɜ.
vorremmo che più persone rivendicassero oggi quel movimento, e che questa storia che ci ha generato, che ha sfidato il tempo e i continenti, appartenesse anche a chi pensa di non esserne coinvoltə. sono tanti gli spunti per il futuro che le lotte e la storia dell'attivismo hiv possono insegnare: per cambiare il paradigma c'è bisogno di tuttɜ perché siamo tuttɜ sierocoinvoltɜ.

se siete della mia generazione vi sarete accortə che di hiv non se ne parla quasi più, nel bene e nel male. se siete della mia generazione probabilmente vi ricorderete dell'orribile spot dell'alone viola, una delle tante pubblicità-progresso che ci terrorizzavano in quegli anni.
e infatti quell dell'hiv è una storia che parla di terrore, per non dire di terrorismo.
quella dell'hiv è una storia di stigma sociale, di marginalizzazione, di stereotipi e di luoghi comuni, è la storia di una crudele negazione dell'umanità stessa delle persone coinvolte.
o meglio, lo è in massimo parte. scendendo un po' più a fondo nella tana del bianconiglio, scopriamo tutto quello che, mentre ci dicevano di evitare ogni tipo di contatto con lə sieropositivə, non ci è stato raccontato.
è laggiù, sotto lo strato di narrazione comune, che troviamo chi con hiv ci convive, chi ha attraversato anni, anche decenni in compagnia del virus, chi ha visto morire persone care e chi si è ritrovatə al centro di una comunità che nel tempo è cresciuta, una comunità di persone sierocoinvoltə che hanno saputo fare rete quando il resto della società aveva troppa paura di loro o quando, semplicemente, aveva dimenticato la loro esistenza.
sierocoinvoltə è un libro corale, scritto da conigli bianchi - il collettivo di artivistə contro la sierofobia che dal 2014 combatte la discriminazione verso le persone con hiv attraverso l'arte - e prep in italia - il collettivo che lavora per colmare la carenza di informazioni sulla profilassi pre esposizione per proteggersi da hiv e collabora con associazioni e istituzioni per una sessualità consapevole, libera e serena - un miscuglio di biografie e parole di rivendicazione sociale e politica, è un po' un saggio e un po' un romanzo, è il viaggio di alice che nella tana del bianconiglio - o meglio dellə bianconigliə! - scopre una realtà nascosta che non vede l'ora di venire alla luce.
in questo libretto, che smonta pezzo per pezzo i vecchi stereotipi come quello per cui l'aids è qualcosa che riguarda solo i gay cis (soprattutto bianchi), ho trovato tantissime informazioni che non conoscevo: ad esempio, ho scoperto che chi convive con hiv può avere una normalissima vita relazionale, romantica e sessuale come vuole e con chi vuole e senza mettere lə propriə partner in pericolo semplicemente seguendo una terapia. che i test sono gratuiti e veloci, che, nei casi in cui siamo in dubbio sulla nostra salute o su quella dellə nostrə partner, è possibile prevenire il contagio e che chi vuole avere figlə può, sempre grazie alle nuove medicine a disposizione, farlo senza rischi.
ho scoperto una formula bellissima che è u=u, undetectable = untrasmittable, cioè non rilevabile = non trasmissibile, che vuol dire che le persone con hiv possono curarsi e abbassare fino a zero il rischio di trasmissione del virus.
insomma, la storia dell'hiv e dell'aids è cambiata tantissimo degli ultimi anni eppure le informazioni disponibili sui canali non-specifici sono poche, e leggere questo libretto è un ottimo modo per aggiornarsi, oltre che per capire meglio com'è la vita con hiv dalle parole di chi con hiv ci vive.
perché, adesso che l'infezione può essere tenuta a bada, adesso che si può - grazie alla prevenzione e alla profilassi - concretamente pensare di debellare l'hiv completamente dalle nostre vite, si parla così poco di hiv, di cura e di prevenzione? perché, dopo anni di terrore psicologico che hanno marginalizzato centinaia di persone, non si racconta quanto sia facile oggi coinvivere con hiv? e, soprattutto, perché nessunə ci racconta mai che l'hiv non è qualcosa che accade allə altrə, a chi mette in atto comportamenti a rischio (come se questo, poi, fosse una giustificazione, come se l'infezione fosse una "punizione" per i propri errori), ma che ci riguarda tuttə? perché è così.
l'hiv è, come ogni altro virus, presente nelle nostre città, nelle persone che ci circondano. come ogni altro virus sa essere silenzioso ed è bravo a nascondersi, a volte anche per anni.
eppure scovarlo e conviverci adesso è facile! e se impariamo a farlo, impariamo a proteggere noi stessə, chi amiamo e chi non conosciamo neppure. e dobbiamo saperlo tuttə perché siamo tuttə sierocoinvoltə!
la rivoluzione sessuale, dice il sottotitolo, riparte dall'hiv perché, messo (si spera!) definitivamente da parte il bigottismo e il moralismo, quello che conta davvero è la consapevolezza di cosa ci piace e di cosa piace alle persone con cui facciamo sesso, dei modi che abbiamo per raggiungere quel piacere e la cura - gratuita, accessibile e informata - di noi stessə e dellə nostrə partner.
se lə bianconigliə passano a leggere queste poche righe, voglio ringraziarlə ancora una volta per le storie e le parole di lotta e resistenza che hanno tirato fuori dal cilindro e che ci hanno donato alla presentazione di maggio a torino

 il bambino e il cane 
yaichi sapeva che i cani capivano le persone: erano delle creature speciali donate da dio, o da buddha, a quelle creature folli che erano gli uomini.

ci sono due tipi di persone: quelle che davanti a una storia (un libro, un film, un fumetto eccetera) in cui muore un animale piangono, e quelli che hanno un sasso al posto del cuore. se fate parte della prima categoria, vi spoilero che sì, qui il cane muore. così lo sapete e potete scegliere se reggete la lettura oppure no.
questo romanzo mi ha sorpresa perché non avevo idea di cosa aspettarmi e un po' temevo fosse una storia smielosa e strappalacrime. piangere si piange, eh, ma i miei timori erano infondati. il romanzo si divide in sei capitoli: l'uomo e il cane, il ladro e il cane, la coppia e il cane, la prostituta e il cane, il vecchio e il cane, il bambino e il cane.
il cane, va da sé, è sempre lo stesso, tamon, un incrocio di pastore tedesco e una qualche razza giapponese non meglio identificata, un mamori-gami, un angelo custode che infonde coraggio, fiducia e amore a chi ha la fortuna di incrociare il suo cammino.
lə altrə personaggə, invece, cambiano di volta in volta, rappresentando le tappe fondamentali di un viaggio che dura quasi cinque anni, dallo tsunami dell'isola di honshū del 2011 fino... beh, lo scoprirete. tamon è un cane eccezionale, dotato di un fisico incredibilmente robusto, di una volontà incrollabile e di un senso di attaccamento che fa quasi pensare a una leggenda.
il suo nome rimanda a tamonten, uno dei quattro guardiani celesti del buddismo, e in effetti sia a noi lettorə che allə personaggə che condividono il suo cammino, tamon sembra una creatura soprannaturale, mandata dal cielo ad aiutare gli esseri umani che attraversano un momento difficile della loro vita. anche una certa ricorsività degli elementi nei vari capitoli rimandano alla struttura dei miti, di storie che si declinano in modo differente spostandosi tra la gente e nel tempo, rimanendo sempre uguali a loro stesse.
tamon sembra capace di odorare la solitudine e indica la via, in senso metaforico e non: chi se lo ritrova accanto, osservando i suoi profondi e dolci occhi neri, riesce a trovare la direzione da dare alle proprie azioni, a rimediare a vecchi errori e a guardare al futuro con speranza e tranquillità.
in modo più o meno letterale, tamon è una guida, una sorta di psicopompo capace di condurre le anime da uno stato all'altro dell'esistenza. aiuta a passare attraverso i mondi, quali che questi siano, aiuta a superare il trauma della trasformazione, del distacco da ciò che si conosce e la paura di quello che non si conosce ancora.
e chi meglio di un cane, una creatura che non parla ma che sa leggere nei cuori ed entrare in empatia profonda con chi ha accanto, poteva comunicare l'indicibile? chi poteva mostrare quello che non si può vedere, far sentire quello che non si sa come riconoscere?
il bambino e il cane è un romanzo che gioca sul piano del simbolismo ma soprattutto con le emozioni dellə lettorə, ci mette davanti degli umani-tipo con cui entrare in sintonia e delle situazioni-tipo in cui ritrovarci. hase seishū estremizza gli uni e le altre e però, anziché creare un effetto respingente, aumenta la nostra capacità di immedesimazione mostrandoci la plausibilità di quelle vite sgangherate. tamon sa ignorare le colpe, sa trovare il lato buono in chiunque, guardando oltre la rabbia, gli errori e le paure. lui resta lì a dare il suo amore dove qualcuno ha bisogno di un supporto, senza giudicare e senza pretendere nulla. e nel farlo, ci insegna la più grande delle lezioni.

 un salmo per il robot 
lode ad allalae per la compagnia.

evviva! che bello! sono tornati sibling dex e mosscap! in un salmo per l'universo, monaco del tè e robot di nuovo fianco a fianco su panga, la luna su cui l'umanità ha imparato dai propri errori ed è riuscita a coniugare prosperità e rispetto degli ecosistemi e delle risorse. armonia con la natura, rispetto dell'altrə, liberazione dalle catene delle imposizioni sociali: panga è una sorta di paradiso di bellezza ed equilibrio, abitato dalla versione migliore dell'umanità che hanno abbandonato capitalismo, sopraffazione e consumismo per il bene collettivo.
dopo la prima parte del viaggio, in cui mosscap aveva condotto sibling dex a indagare la parte più selvaggia di panga, lə due si trovano adesso a confrontarsi con lə altrə abitanti di città e villaggi, portando avanti la ricerca di mosscap: di cosa hanno bisogno gli esseri umani?
lo stupore per una creatura che rimanda a un'epoca lontanissima, l'era delle fabbriche, suscita curiosità ed entusiasmo ovunque e tra chiunque, ma becky chambers approfitta del vagare dell'improbabile coppia per riflettere non solo su quello che ci serve per vivere bene, ma anche su quello che fa di un essere umano - o di un robot - una creatura vivente.
l'atmosfera è sempre quella di una pacata serenità che si fa base per una meditazione sul significato dello stare al mondo, sulla necessità della morte come elemento fondamentale per poter definire la vita e renderla preziosa, su quello che scegliamo di accogliere nel nostro tempo o di rigettare per poterlo vivere pienamente e al meglio.
mi spiace che questo libro stupendo - incluso un salmo per il robot, già pubblicato l'anno scorso - sia uscito solo nell'edizione urania, che non sia sempre disponibile in libreria (e che non abbia una traduzione e una cura adeguate) ma mai dire mai.
intanto, se ne avete l'occasione, setacciate edicole e mercatini dell'usato e recuperateli entrambi!