martedì 30 gennaio 2024

trilogia della città di k.

nonna ci picchia spesso, con le sue mani ossute, con una scopa o uno strofinaccio bagnato. ci tira per le orecchie, ci agguanta per i capelli.
altre persone ci danno anche dei ceffoni e dei calci, non sappiamo neanche perché.
i colpi ci fanno male e ci fanno piangere.
[...] decidiamo di irrobustire il nostro corpo per poter sopportare il dolore senza piangere.
[...] nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. è qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre.
non piangiamo più.

trilogia della città di k. è un libro difficile. in tutti i sensi possibili.
è difficile da leggere perché la storia di lucas e claus fa male, ma proprio tanto male, e perché agota kristof non è certo il tipo di autrice che prende lə suə lettorə per mano e lə accompagna lungo il sentiero della narrazione.
anzi. agota kristof è più una che semina chiodi d'acciaio per strada sperando che ti si buchino le gomme.
in curva.
vicino a un dirupo.
trilogia della città di k. è un romanzo che in realtà sono tre: il grande quaderno, la prova e la terza menzogna, pubblicati tra il 1986 e il 1991 e tradotti in italiano - tutti e tre insieme - per la prima volta nel 1998.

la storia inizia come inizierebbe una favola raccontata da unə bambinə a cui mai nessunə, però, ha raccontato delle favole. inizia in una città senza nome e in un tempo qualsiasi, durante una guerra qualsiasi, crudele, ingiusta e dolorosa come tutte le guerre.
lə protagonistə non hanno nomi, ci sono solo una madre disperata che non sa più come sfamare i suoi figli, un padre lontano e una nonna acida e malvagia.
e poi ci sono due gemelli, due bambini che sono praticamente una cosa sola, un'entità plurale condensata in un noi che pensa, parla e si muove all'unisono.

il grande quaderno, da cui prende il titolo il primo romanzo, è quello in cui i due gemelli scrivono e raccontano la loro nuova vita in campagna dalla nonna, una vecchia lurida al limite della bestialità, avara e incapace di provare un briciolo di tenerezza, compassione e affetto. anzi, la donna non perde occasione per picchiare, offendere e abusare dei due bambini in ogni modo possibile.
giorno dopo giorno, evento dopo evento, i due gemelli descrivono nel loro quaderno una società inaridita dalla guerra e dalla fame, un ambiente in cui riescono a sopravvivere solo soffocando ogni emozione e ogni bisogno dietro un'armatura d'indifferenza, e lo fanno con un linguaggio studiatamente freddo e asettico in cui qualsiasi tipo di sentimento è bandito per scelta cosciente e consapevole.
il loro è un mondo incattivito in cui non c'è spazio per l'infanzia, in cui bisogna crescere alla svelta e imparare a superare lə adultə in astuzia, per rimediare cibo, per proteggersi dal freddo, per sopravvivere alle prepotenze e alle violenze.
col tempo, i due bambini diventano sempre più insensibili, si trasformano in creature capaci di tutto pur di strappare un giorno dopo l'altro al tempo, fino a raggiungere un livello di freddezza e mancanza di empatia che, per noi lettorə, diventa un macigno quasi ingestibile.

le cose cominciano a complicarsi tra la fine di questo primo libro e il secondo - la prova - perché, dal momento in cui i due fratelli si separano, diventa difficile riuscire a capire cosa succede a chi e, soprattutto, chi sono questi chi di cui si parla, e che parlano.
nell'ultima parte, la terza menzogna, nonostante il titolo, in realtà pian piano le cose si svelano per quello che davvero sono. ovviamente, parlare di cosa si svela, come e per quale motivo lo fa sarebbe un po' un delitto perché trilogia della città di k. è un libro che va scoperto man mano, lasciandosi avviluppare dalle bugie, dagli inganni e dai motivi che li hanno resi necessari.

agota kristof scrive con uno stile asciutto, essenziale, senza mai censurare l'orrore, anzi: le parole, le frasi così secche e taglienti sottolineano ogni volta che serve la miseria e la meschinità del mondo dellə suə personaggə, riuscendo al contempo a scrivere un romanzo di enorme intensità.

venerdì 26 gennaio 2024

le streghe di manningtree

il suo nome di battesimo è anne, ma tutti la chiamano "la beldam west". le si addice, poiché è un appellativo ingombrante e malvagio: sembra il nome di un deserto biblico su cui dio ha fatto cadere una pioggia di meteoriti. beldam. "belle" è una parola francese che significa "bella" (e bella mia madre non è , anche se dicono che un tempo lo sia stata). e "dam" come "damned", "dannata". un concetto che mi guardo bene dallo sceverare.

le streghe di manningtree, romanzo d'esordio di a.k. blakemore, è uno dei libri letti a fine dell'anno scorso insieme alla coven di lettura* dedicata alle streghe, appunto. e forse, tra gli ultimi che abbiamo scelto di leggere, è uno di quelli che mi hanno lasciato il sapore più sciapo in bocca.

la storia si rifà alle reali persecuzioni contro le streghe nell'inghilterra del XVII secolo. per la precisione, siamo nel 1643 quando inizia la vicenda, a manningtree, una piccola cittadina dell'essex da cui la guerra ha portato via tutti gli uomini, lasciando le donne a macerarsi - e a macerare i loro piccoli odi personali, acuiti dalla fame e dai sacrifici che tempi simili impongono - da sole in paese.
le più vecchie, le più povere, quelle non ancora sposate e, in generale, chiunque si faccia notare troppo, diventa facilmente mira della antipatie altrui. e la beldam west è una che si fa notare decisamente troppo e su cui circolano, sottovoce, pettegolezzi circa la sua non proprio integerrima condotta morale.
rebecca, voce narrante della storia, è la sua unica figlia. e, almeno all'inizio del romanzo, prova odio e disprezzo per quella madre così fuori dalle righe. là dove la beldam west si lascia andare all'alcol e alle cattive compagnie, rebecca cerca di essere una ragazza modello: instancabile lavoratrice, modesta, pudica, devota e studiosa (di catechismo, ovviamente, non fatevi strane idee). studiare, soprattutto, è una delle cose che preferisce perché il suo insegnante è lo scrivano john edes, per cui bella nutre un amore puro e innocente.

in poche parole, rebecca è un'insopportabile bacchettona bigotta il cui virginale candore e la convinzione di peccare a ogni respiro che fa risultano stancanti in breve tempo.
ho passato tutta la prima parte del libro a sperare che prima o poi sua madre prendesse il suo posto.
la svolta, tanto nella trama quanto nella noiosissima esistenza di rebecca, arriva insieme a matthew hopkins, l'inquisitore.
e quando arriva l'inquisitore, improvvisamente le donne - soprattutto quelle più povere, vecchie e sole - iniziano a diventare streghe. o a vedere il diavolo nei posti più impensabili, come accade a rebecca, e a convincersi di esserlo.

matthew hopkins è un uomo orribile e odioso, ha una mente perversa e malvagia che riversa quella stessa malvagità su chiunque si posi il suo sguardo. hopkins vede il peccato in tuttə tranne che in sé stesso e - cosa che non ci sorprende affatto - mette subito gli occhi addosso a rebecca e a sua madre, tra le altre. l'evento che scatenerà l'inferno per le donne di manningtree è una strana febbre che coglie un bambino. da questo momento il paese si anima di dicerie su streghe, maledizioni, invidia e sortilegi.
dai primi pettegolezzi alle prigioni fredde e umide il passo è brevissimo.
buona parte del libro è dedicata proprio ai lunghi anni tra le prime accuse fino alla fine del processo a diverse donne, tra cui, ovviamente, ci sono anche rebecca e sua madre.
alla ragazza serve patire sulla propria pelle tutta quella crudeltà, quell'orrore, quell'odio per cominciare a schiarirsi la mente su dio e gli uomini e per cambiare, pian piano e con cautela, idea su sua madre.

quello che mi ha convinta meno di questo libro - che vanta un bello stile di scrittura, soprattutto se vi piacciono i toni un po' barocchi - è proprio la protagonista. sicuramente, rebecca è figlia del suo tempo ed è la più probabile rappresentazione di una giovanissima popolana dell'inghilterra del '600, istruita il minimo indispensabile e cresciuta in un ambiente intriso di puritanesimo.
però - proprio come si diceva nel gruppo - adesso avremmo bisogno di personagge che non siano sempre e solo vittime, anche a costo di essere meno coerenti con il contesto storico (d'altronde, si parla di romanzi, non di saggi), e di una visione dell'essere strega che possa sottolineare il potere, la conoscenza, la forza e l'indipendenza delle donne che hanno sfidato un certo modo di pensare e non quello di chi ha cercato, a tutti i costi, di conformarvisi.
insomma, non è un brutto libro, anzi, è molto appassionante, però sarebbe bello riuscire a leggere qualcosa di diverso (ad esempio, qualcosa di più simile a le streghe in eterno).

* per tutte le info sulla coven vi rimando alla pagina instagram della sua fondatrice.

mercoledì 17 gennaio 2024

commenti randomici a letture randomiche (81)

un paio degli ultimi fumetti letti lo scorso anno - che mi hanno entusiasmata molto meno di quanto pensassi - e il primo libro del nuovo anno, consiglio apprezzatissimo della cara stella dello scartafaccio, tutto mischiato insieme nel disperato tentativo di sfoltire un po' la pila delle cose-che-ho-letto-e-di-cui-vorrei-parlarvi.

 kaina of the great snow sea ~ vol. 1 


due sono le cose che mi hanno convinta a provare il primo volume di kaina of the great snow sea: il nome di tsutomu nihei (prima o poi sarò ricca e recupererò tutto blame!) e l'idea di due mondi vicinissimi che però quasi si ignorano completamente.
non lo boccerei ma tocca ammettere che come inizio è un po' meno entusiasmante di quello che immaginavo - o forse, semplicemente, speravo - ma ha del potenziale, che spero venga fuori nel prossimo volume.
il pianeta in cui vive kaina - si tratta della terra? un futuro in cui i cambiamenti climatici hanno devastato il clima? - è praticamente sommerso dalla neve. l'unico posto in cui ci sono ancora esseri umani è la membrana celeste, la superficie che si estende sopra gli alberi orbitali, piante gigantesche che affondano le loro radici lì dove nessunə vive più ormai, un mondo disabitato di cui restano poche tracce di un passato lontano. o almeno, questo è quello che crede kaina, il più giovane, anzi, l'unico ragazzo in una comunità di vecchiettə, preoccupatə per il suo futuro quando loro non ci saranno più. tuttə loro si occupano di kaina, come in una grande, strana famiglia, mentre lui va a caccia (le uniche prede disponibili sono dei giganteschi e anche un po' orripilanti insetti - e le loro uova - che vivono tra gli alberi orbitali). l'umanità, insomma, sembra destinata a estinguersi a breve ma la quotidianità della membrana celeste viene scossa dall'incontro tra kaina e la principessa ririha, un'abitante del mondo di sotto. sfuggita all'esercito nemico, ririha racconta di un mondo ormai completamente soffocato dal mare di neve, in cui pochi villaggi e città sorgono tra le radici degli alberi orbitali.

nonostante l'umanità sia a un passo dall'estinzione per la mancanza di acqua e di sostentamento, il paese di valgia semina morte e terrore per derubare gli altri insediamenti. lo scopo del viaggio di ririha era quello di riuscire a incontrare il saggio della foresta, qualcuno sulla membrana che sapesse aiutarla a salvare il mondo. ririha sapeva che si trattava solo di una leggenda, ma a cosa altro affidarsi quando ogni possibilità di sopravvivenza sembra essere scomparsa?

la storia, fin qui, sembra interessante ma c'è qualcosa di non troppo definibile - o che comunque non riesco a individuare con precisione - che rende tutto meno appassionante di quanto potrebbe essere.
sono molto curiosa di leggere almeno un altro paio di volumi per sapere che piega prenderà la storia e capire se ne vale la pena o meno andare avanti.

 saga ~ vol. 11 


ogni volta che esce un numero di saga io sono ipermegaentusiasta. stavolta però mi sono quasi annoiata a leggere questo volume perché sembra che non succeda niente di che. o meglio, sembra che si stia preparando il terreno per un sacco di cose che succederanno dopo. il ricordo di marko continua a essere ossessionante e non soltanto per hazel e alana. se non si trattasse di saga, mi aspetterei che, in un modo o in un altro, tornerebbe, ma qui nessuna gioia è regalata a caso e mi sa che di miracoli non ne vedremo. e mentre alana cerca di sbarcare il lunario e offrire una vita dignitosa e sicura a hazel e a scudiero, non soltanto lə due bambinə sembrano avere quello di mettersi nei guai come obiettivo principale, ma il resto dell'universo pare non abbia alcuna voglia di dimenticarsi di loro e smettere di dargli la caccia.
il problema è che ormai ci sono in ballo troppə personaggə e troppe trame e sottotrame che si intrecciano e che, vista la cadenza delle uscite, si dimenticano almeno in parte.
penso che il prossimo volume sarà più interessante, intanto ci tengo a sottolineare che per me questa continua a essere una delle serie migliori degli ultimi anni. toccherà fare qualche rilettura e prendere appunti per non perdersi per strada...

 seppellitemi lassù in montagna 


seppellitemi lassù in montagna di francesca tacchi è stato il mio primo libro del 2024.
sono un po' scaramantica su questa cosa, quando inizio con un libro che mi piace molto poi, di solito, riesco a leggere cose belle per tutto l'anno, quindi sono stata contentissima di cominciare con una storia folle come questa, in cui magia e resistenza antifascista si fondono in modo totalmente inaspettato che però funziona benissimo.
c'ho messo un po' prima di leggerlo proprio perché mi faceva strano mettere insieme due elementi così diversi, avevo paura che mischiare fantastico e storia andasse a svilire la seconda (e, soprattutto perché si parla di un pezzo di storia così importante, ero parecchio spaventata). però ho dovuto ricredermi. se è vero che
ogni giorno è buono per ammazzare nazisti
è anche vero che ogni storia è buona per ammazzare nazisti. e fascisti. che poi sono la stessa cosa. insomma, mi piacciono molto le storie in cui lə partigianə fanno fuori lə nazistə, che si tratti di storia o di pura invenzione (è il motivo per cui mi piace tanto star wars), e in questo racconto non ci si risparmia di certo.
è il 1944 è veleno, nome di battaglia, vuole solo eliminare più feccia fascista/nazista dalla faccia della terra prima di morire. è sicuro che morirà a breve, è sicuro che non vedrà l'italia libera dal fascismo, che non sopravvivrà abbastanza da festeggiare la vittoria della resistenza ma a lui non importa. l'unica cosa che desidera è la vendetta.
diventato partigiano, veleno ha incontrato rame, compagno, amico e amante. rame è uno che ha lo sguardo lungo, capace di vedere oltre, di immaginare il suo paese libero, di sognare un futuro giusto ed equo per tuttə. e, se pure veleno continua ossessivamente a cercare la vendetta senza curarsi della sopravvivenza, forse rame è la sua ancora, è quello che in qualche modo lo tiene ancorato alla vita, un giorno alla volta.

insieme a rame, c'è angizia - l'antica dea etrusca dei veleni - a proteggerlo e a dargli il potere di curare le ferite, sue e dellə altrə. veleno è votato alla morte in combattimento ma ha la capacità di salvare la vita anche nei casi più disperati. l'anello che porta con sé, eredità della sua famiglia - una famiglia di serpari - guarisce ogni ferita, mentre le percezioni di veleno si alterano: avverte l'abbraccio di angizia, vede i suoi serpenti avvolgere tutto intorno a lui, sente la voce della dea e il sibilare degli animali che la accompagnano.
francesca tacchi riesce a raccontare questi momenti con così grande intensità che sembra di vederlo, questo ragazzo e il suo mondo che si immergono in un'altra realtà così straordinaria da non potercisi mai abituare davvero, un piano di esistenza in cui la dea svela che veleno e cura, morte e vita non sono che le due facce della stessa medaglia.
ed è proprio in virtù delle doti di veleno che lui e rame, insieme ad altre due partigiane, mosca e irma, vengono incaricatə di portare a termine una missione fondamentale per le sorti della guerra. una missione durante la quale veleno scoprirà di non essere l'unico ad avere un legame così stretto con le divinità, e che in fondo, di morire per mano di un nazista non ne vale poi così tanto la pena...

martedì 16 gennaio 2024

l'archivio dei finali alternativi

sono storie che parlano di cupidigia, di menzogne, di violenza e di abuso. sono storie sul potere e sulla disperazione. ci sono enigmi e trappole, ci sono mostri e fantasmi e corpi spezzati, braccia mancanti e gambe mozzate e teste perdute. e, mentre wilhem si concentra sulla trama e i personaggi, jacob, non smette mai di pensare a come accadono le cose, nota che quasi tutti i personaggi entrano, escono o si perdono in un bosco.

se dovessi scegliere il libro più strano letto l'anno scorso, l'archivio dei finali alternativi vincerebbe staccando tutti gli altri titoli di parecchi punti. probabilmente è uno dei più belli che ho letto, sicuramente uno dei più interessanti eppure è un po' troppo cervellotico perché rientri tra i miei preferiti (in fondo, resto una lettrice che si innamora di pancia delle storie e per questa qui, invece, ci vuole molta più testa e, magari, carta e penna a disposizione).

provare a spiegare di cosa parla questo libro è una vera impresa: parla di fiabe, di chi le racconta e di chi le raccoglie e di una cometa, quella di halley (anche prima che fosse di halley) che passa accanto alla terra ogni settantacinque anni circa, di chi la osserva e di chi ne è osservatə, e poi parla di fratelli e di sorelle, di famiglie, di segreti, di amanti, di boschi, di streghe e di salvatrici, parla di scatole di biscotti, di crudeltà, di violenza, di abusi - che, proprio come notava wilhem, sono cose che è facile trovare in tante storie - a anche di amore. ecco, fare un elenco così in fondo non è poi tanto difficile, è molto più complicato capire come tutti questi elementi siano collegati - e lo siano in modo praticamente perfetto e tremendamente complesso.
così complesso che, probabilmente per la prima volta in vita mia, ho dovuto prendere appunti per capirci qualcosa. e per provare a rispondere alla domanda di cui prima.

la narrazione segue i passaggi della cometa che, come le luci sul palcoscenico di un teatro, illumina momenti e storie. così, quelle che sembrano vicende scollegate, lontane decenni e secoli le une dalle altre, diventano brani di una stessa narrazione, quella della cometa stessa che, nel suo eterno allontanarsi e poi ritornare verso il sole, sbircia la terra a ogni passaggio.
eppure, questi frammenti non sono raccolti in ordine cronologico: lindsey drager usa, per collegarli, la storia di hansel e gretel e la storia di come il racconto di cui sono protagonistə si trasforma in fiaba, si scompone per secoli e secoli in un prisma di versioni e interpretazioni differenti, narrato da migliaia di voci diverse, prima di essere imprigionato sulla carta, fissato in un'unica forma.
è da qui, nel 1835, che inizia il romanzo. mentre la cometa attraversa la notte, wilhem e jacob grimm decidono quale sarà la versione definitiva della fiaba dellə due bambinə persə nel bosco.
per registrare una fiaba si deve accettare di perdere sempre qualcosa. alcune cose devono rimanere taciute e nascoste. l'arte della narrazione, aveva detto il fratello, consiste nel sapere dove e come lasciare spazi vuoti.
le diverse versioni di hansel e gretel che hanno ascoltato si somigliano un po' tutte.
tutte tranne una.
a raccontarla è una donna e quello che sostiene è che il motivo che ha indotto lə genitorə a far perdere lə bambinə nel bosco non era la fame, né la miseria. era l'incapacità di accettare che hansel fosse attratto da altri uomini, era il rifiuto di un modo diverso di amare. era l'odio e il desiderio di annientamento verso ciò che non si riesce a comprendere, così forte da troncare persino i legami di sangue. secondo il racconto di questa donna, gretel sceglie di andare nel bosco, di abbandonare lə genitorə crudeli per seguire il fratello e proteggerlo.
wilhem, consapevole del segreto di jacob, decide di fare come la bambina della fiaba. e per proteggere il fratello - che mai si sposerà né avrà figli - decide di nascondere per sempre il segreto di hansel, e quindi quello di jacob, negli spazi vuoti, in quel non detto che cristallizza, per sempre, la storia dellə bambinə persə nel bosco così come l'abbiamo sempre conosciuta.
in qualche modo, wilhem prova a cancellare l'orrore di una violenza, di un odio così feroce per tenere jacob al sicuro. ma la cometa continua a girare e fratelli e sorelle continuano a nascondere e a condividere segreti.
se nei libri di fiabe è la miseria a portare all'abbandono di hansel e gretel, sulla terra si continua a odiare e ad allontanare chi ama in modo differente, nei secoli dei secoli.

nel 1910, a un altro passaggio della cometa, incontriamo una donna. è stata rinchiusa in un manicomio e sta disegnando. disegna la storia di due bambinə persə nel bosco e affamatə, due bambinə su cui lo sguardo si posa dall'alto, da sopra le cime degli alberi. lei ancora non lo sa ma quei disegni verranno trovati, nascosti in una scatola di biscotti, da un'infermiera e pubblicati. l'edizione illustrata di hansel e gretel sopravvivrà ancora per secoli e, nel 1986, verrà donata da uno scrittore - inconsapevole discendente di wilhem grimm - a un suo giovane amante, un programmatore allontanato dalla famiglia che non accetta il suo essere omosessuale.
e, ancora, in una terra ormai sull'orlo del tracollo, nel 2136, la cometa può illuminare quelle pagine strette tra le mani di una donna in cerca di acqua che non sa più leggere.
e nel 2211 quella stessa storia di bambinə abbandonatə e di boschi in cui perdersi e poi forse ritrovarsi si può ascoltare nello spazio, se si è capaci di decifrare i messaggi di due sonde gemelle che cercano altre forme di vita a cui recapitare il loro messaggio, l'eredità di un'umanità che continua a raccontare la crudeltà verso due bambinə che, mano nella mano, attraversano il bosco.
copie di copie, pagine uguali una all'altra come quelle che un entusiasta johannes gutemberg mostra, in una sera del 1456, alla sua gemella. il viso di lei si rispecchia in quello di lui, i lineamenti si sovrappongono proprio come fanno i fogli stampati grazie all'invenzione del fratello, l'unico che crede alla sua storia, l'unico che vuole preservare la sua memoria.
e ancora e ancora, la storia di hansel e gretel, degli amori proibiti, dei boschi e dei segreti condivisi attraversa il tempo e lo spazio, ancora si nasconde nelle scatole dei biscotti, ancora svela il punto di vista di una stella che vorrebbe solo suo fratello accanto a sé:
ogni volta che imparava qualcosa di nuovo faceva tutto il viaggio di ritorno per vedere il fratello, il sole, perché il suo lavoro era al centro dell'universo e non poteva lasciare il posto vacante. gli raccontava cosa aveva imparato. vieni con me, gli chiedeva, verso i porti sicuri ai confini del mondo, dove non c'è così bisogno di te. vieni con me e vivi ai margini dove puoi imparare e amare e perdere, i tre grandi obblighi morali. e anche se ogni volta il sole di rifiutava di seguirla, la sorella stella ritornava.
quello di lindsey drager è un bellissimo esperimento narrativo, un gioco colto ed elegante fatto con le storie e le parole, con i personaggi e gli oggetti e le epoche, un gioco di rimandi che si rincorrono e si ritrovano tra un capitolo e l'altro, tra un passaggio della cometa e l'altro, avanti e indietro tra passato e futuro.
un libro come, forse, non ce ne sono altri al mondo, strano e affascinante di cui tutto quello che vi ho raccontato non è che un pizzico.

mercoledì 10 gennaio 2024

quattro chiacchiere sul maschilismo nel mondo nerd

nelle ultime settimane del 2023 ci sono stati diversi episodi che hanno (ri)acceso l’interesse su alcune dinamiche tremendamente maschiliste e discriminatorie tipiche del mondo nerd. ho chiesto a chi se ne è occupata più e meglio di me di provare a capire quello che sta succedendo e, soprattutto, come provare a cambiare lo status quo.

le ospiti di oggi di claccalegge sono – in disordine sparso: maura saccà, game designer, programmatrice e membro del collettivo gameromancer che si occupa di portare alla luce i problemi della cultura nerd, specialmente quella videoludica; cecilia formicola, fumettista, attiva sia in italia che in francia, flavia luglioli, fumettista, rilegatrice e libraia; alessandra stefanelli, giornalista sportiva e appassionata di manga e videogiochi, anche lei del collettivo gameromancer e sara silvera darnich, educatrice di sostegno nelle scuole dell'infanzia, che si occupa della nerdculture da una prospettiva pedagogica e femminista.


ciao cecilia, alessandra, maura, flavia e sara, grazie mille per la vostra disponibilità e benvenute su claccalegge!
cecilia: Grazie a te per averci ospitate!

► sara: grazie di cuore per aver pensato a questa intervista!
la letteratura, intesa nel suo senso più ampio di "raccontare storie" è stata forse, tra tutte le arti, quella che ha saputo indagare e far conoscere meglio l'animo umano: le storie e le parole - ma anche le immagini - che usiamo per raccontarle, sono una vera e propria educazione sentimentale. dai racconti che ci accompagnano per tutta la vita impariamo a metterci nei panni dellə protagonistə delle storie (romanzi, fumetti, film, videogiochi), gioiamo, amiamo, soffriamo con loro. mi scuso di questa premessa un po' lunga ma era necessaria a porvi la prima domanda: come vi spiegate che la bolla nerd - che è letteralmente cresciuta nutrendosi di storie che molto spesso hanno anche protagonistə un po' sfigatə, bullizzatə ed emarginatə - sia diventata così violenta? perché oggi parliamo nello specifico di misoginia ma anche in altri ambiti non c'è da stare molto allegrə...
► cecilia: Dal mio punto di vista, molte delle storie del mondo nerd sono storie di riappropriazione, il viaggio della persona qualunque che diventa eroe*, che diventa potente. La persona nerd media si sente di rivendicare quel potere per sé, dopo l'emarginazione a cui è stata costretta dai suoi pari, e diventa quello che crede sia una persona potente appena ne ha occasione: offende, discrimina, manipola, reclama la gloria per sé a scapito di chi bolla come cattiv*, di chi l* minaccia.

► maura: Poiché la bolla nerd è stata sempre molto discriminata dalla società sin dagli albori, all'interno delle storie raccontate in videogiochi e fumetti (e in varie altre opere nerd) si è sempre cercata quella voglia di riscatto, raccontando appunto storie di riscatto. La bolla nerd è stata creata da uomini attorno a una identità maschile - parlo nello specifico di quella videoludica che conosco di più - definita spesso mascolinità geek. Era la loro bolla, ciò che si erano creati per rifugiarsi dalla società che li bullizzava. Quando la bolla si è aperta, per allargarla a nuove personalità e identità, che volevano anche loro la loro fetta di rappresentazione sia nelle storie che nell'industria del lavoro, i maschi geek hanno visto minato il loro territorio, e hanno preso le armi in mano.

► alessandra: Credo che nella bolla nerd gli uomini abbiano trovato un nuovo modo per esprimere un modello di mascolinità che non rispondesse necessariamente a quello più socialmente accettato. Ma non avendo poi intrapreso un percorso di decostruzione la bolla ha poi finito per riproporre i modelli più conosciuti. Il risultato è l’abuso di potere e la tendenza a escludere qualunque elemento visto come estraneo, proprio per la paura di perdere la posizione tanto faticosamente costruita.

► flavia: Quello che accade è un ripetersi di dinamiche di potere: si crea un luogo dove un maschio, bianco, etero, cis si possa sentire al "sicuro" alimentando una mascolinità tossica. Chiunque non rientra nella cosiddetta normalità viene escluso o fa fatica ad entrare.

► maura: Nell'ambiente videoludico si parla di Gamergate, quando all'interno dei videogiochi diverse giornaliste e sviluppatrici - tra cui Zoe Quinn e Anita Sarkeesian - che rivendicavano la loro presenza e i loro diritti all'interno dell'industria vennero prese di mira, minacciate di morte, nel caso di Sarkeesian addirittura sono stati creati dei videogiochi in cui la si poteva pestare di botte. cecilia: C'è anche una questione di socialità secondo me; nel branco trovi alleanze, senza conflitto interno reale, se segui quelle regole non sei più sol*.

► sara: sono d’accordo con quanto detto da tutto quante: aggiungo una cosa: il mondo nerd è dominato da uomini traumatizzati e infantilizzati che non hanno mai messo in discussione né il sistema dal quale sono scappati, né quello in cui si sono rifugiati (la nerdculture).

eppure la presenza non-maschile in questa bolla nerd non è poi così recente e, soprattutto negli ultimi 10/15 anni, le ragazze e le persone queer hanno trovato il loro posto nell'universo nerd (parlo soprattutto del mondo del fumetto, che è quello che conosco meglio)... qual è la differenza, secondo voi, tra le rivendicazioni portate avanti dalla metà femminile/queer e quelle della parte maschile?
maura: La differenza, secondo me, sta banalmente nel fatto che le donne/persone queer o comunque appartenenti a gruppi marginalizzati stanno chiedendo ad un "posto" di includerli. Un "posto" che ha veramente tanto spazio, infinito direi. Non sta cercando di occupare posto preso da altri, non sta cercando di rifugiarsi in qualcosa, sta semplicemente reclamando il diritto a poter vivere la loro parte nerd alla luce del sole e non in maniera invisibile. Mentre ciò che hanno fatto gli uomini è stato creare un "posto" a loro immagine e somiglianza e non accetta contaminazioni.

alessandra: Credo che il pubblico femminile/queer in tutto ciò che è nerd e pop abbia trovato soprattutto un modo per esprimere se stess*, a volte anche riempiendo i buchi di caratterizzazione lasciati dagli autori più o meno volontariamente. L’estetica esagerata, la possibilità di essere davvero chiunque si desideri essere, la necessità di creare nuove icone a cui aspirare. Non c’è quasi mai la voglia di opprimere, solo la voglia di trovare un posto in cui esistere alle proprie condizioni. E questo non viene quasi mai accettato da chi ha ricreato nella propria bolla il patriarcato che conosceva già e con cui si sente a suo agio. È bellissimo, secondo me, come gli autor* spesso si affannino a smentire l'orientamento sessuale di alcun* personagg* (penso ad esempio a Bayonetta) non capendo che spesso le icone diventano tali che loro lo vogliano o no. Altre volte, secondo me, gli autori lo fanno invece in maniera molto più consapevole: penso ai continui sguardi languidi tra Sephiroth e Cloud in Final Fantasy 7 Remake o tra Sora e Riku in Kingdom Hearts. Sarà forse che noi lettrici/giocatrici ecc. ci siamo abituate più di altri a riempire i buchi anche per far fronte a un'assenza di rappresentazione? Possibile.

cecilia: Secondo me le rivendicazioni partono da una stessa base, cioè l'emarginazione, la discriminazione, l'isolamento, la violenza subita. Cerchiamo tutti uno spazio per riaffermarci in quanto persone, nelle nostre caratteristiche, in libertà; se non riconosciamo che, oltre a subire discriminazione e violenza, le agiamo verso altre categorie, quando avremo quello spazio per noi avremo anche più spazio e possibilità (e quindi potere) di agirle. Un'identità non maschile è per forza di cose più consapevole dei disequilibri sistemici, e fa molta più autoanalisi; non è affatto impossibile che replichi quei meccanismi di oppressione verso i gradini più in basso della gerarchia ma di certo ci si rende molto più conto che c'è spazio per tutt*, e quindi le persone nerd non maschie si battono per allargare lo spazio per sé stesse, non per strapparlo a qualcun*.

► flavia: Le rivendicazioni della parte femminile e queer nel fumetto e nell'editoria (sono le parti che conosco meglio) sono sempre di inclusione e parità di diritti e equità nel lavoro. La parte maschile spesso non ne sente il bisogno, semplicemente perché quel mondo è stato creato apposta per loro e solo adesso stanno lentissimamente e faticosamente provando a far entrare altre persone che non rientrano nel loro canone. Rimane sempre un processo in divenire, e spesso chi riesce a entrare lo fa riempendo spazi lasciati vuoti e che spesso, purtroppo, non riescono a raggiungere un pubblico più vasto.

sara: L’identità degli uomini nerd è di gruppo, pubblica e i suoi linguaggi imitano gli ambienti accademici e scientifici mentre quella delle persone queer o delle donne è qualcosa di nascosto, solitario è privato: adesso che il mondo nerd è diventato mainstream e il mercato di anime/manga è esploso le carte sono cambiate e finalmente anche l’identità nerd delle categorie marginalizzate sta diventando qualcosa non solo di pubblico, ma di politico.
Credo che questa sia la differenza sostanziale tra le due parti: gli uomini nerd vogliono continuare a fare quello che fanno dagli anni ‘50, tutt* l* altr* vogliono che la nerdculture possa diventare strumento di liberazione, espressione artistica e creazione di spazi di utopia.
Non solo, come diceva giustamente Cecilia, c’è la questione della discriminazione alla base dell’identità Nerd: gli uomini hanno usato l’emarginazione come collante iniziale per fare gruppo, poi hanno portato avanti le stesse gerarchie e dinamiche di potere di sempre, le categorie marginalizzate e nerd stanno riuscendo a unire la discriminazione tipica della persona “sfigata del gruppo” all’intersezionalità femminista.
avete parlato di patriarcato e di dinamiche sociali che si ripropongono nella bolla e vorrei fare un attimo una parentesi per parlare di un caso eclatante che è stato seguito in particolare da cecilia, cioè quello di vivès: puoi riassumerci brevemente quello che è successo?
cecilia: cerco di essere breve: in occasione di Angoulême 2023, è stata data a Bastien Vivès, fumettista francese molto noto e amato a livello internazionale, una mostra personale con carta bianca dal titolo "Con gli occhi di Vivès". Una protesta guidata da student* delle scuole di Angoulême, professionist* del settore e un'associazione a tutela dei diritti dell'infanzia ha portato alla cancellazione della mostra, rivelando al grande pubblico dei fumetti pedopornografici di Vivès non conosciuti ai più, una serie di frasi allucinanti intrise di violenza, misoginia e pedofilia, una storia di minacce violente a una collega. In Francia è stato denunciato per pedopornografia e apologia dell'incesto. Nonostante questo, il mondofumetto italiano ha preferito non schierarsi, o farlo in supporto di Vivès, le denunce non sono arrivate o sono arrivate pochissimo qui in Italia e si è pensato di invitarlo tranquillamente al Lucca 2023.

maura: L'Italia è quel paese in cui ancora si dibatte sulla libertà di espressione di chi fa contenuti pedopornografici.

sara: non solo, la bolla nerd italiana è anche quella che rivendica la possibilità di fruire contenuti “loli” considerando chiunque faccia obiezione come “perbenista/bigott*”
flavia: Questo è un mio personale parere, di chi ha visto la dinamica dall'interno: nel mondo del fumetto si sta creando una guerra tra poveri, dove è più importante pubblicare o avere uno spazio (anche gratis), piuttosto che creare una forma di lotta concreta. Noi fumettist* raramente ci mettiamo in discussione davvero per cambiare la situazione, e quando succede dura quanto scrivere un post: giusto il tempo di ricevere i likes. La situazione che si è creata a Lucca quest'anno ne è stata l'emblema: nessuno ha mosso foglia prima che Zerocalcare facesse esplodere il caso.

accuse che vanno molto oltre la questione "bolla nerd" e che comunque, nonostante la loro gravità, sono state ignorate. se non ricordo male, moltə hanno provato a giustificarlo con la scusa che "l'arte non si censura". dove sta, secondo voi, il limite tra libertà di espressione, provocazione artistica e crimine? (la risposta di maura è arrivata mentre scrivevo questa domanda)
► flavia: Il limite sta nella violenza, qualsiasi forma prenda. Quando ti permetti di minacciare o di esercitare un potere nei confronti di chi non si può difendere. Noi siamo ancora nella fase di giustificare il carnefice e addossare tutta la responsabilità alla vittima e questa dinamica tende a ripetersi in qualsiasi ambito.

► maura: Non si può separare l'opera dall'artista. È impossibile vedere l'opera come un artefatto a sé stante, perché a prescindere porterà al suo interno le visioni politiche e sociali dell'artista. Oltre a questo, c'è anche la questione economica. All'interno della bolla videoludica quest'anno si è dibattuto molto sul caso "Hogwarts Legacy" videogioco ambientato nell'universo di Harry Potter, poiché, nonostante J.K. Rowling non fosse coinvolta direttamente nel progetto chiaramente, essendo la scrittrice della saga e detentrice dei diritti, avrebbe tratto benefici economici dall'opera videoludica. Potere economico che avrebbe utilizzato, come ben sappiamo, per portare avanti le sue lotte contro le persone transgender, come sta facendo attivamente negli ultimi anni. Se, quindi, un autore, in questo caso Vivès, utilizza il suo potere mediatico ed economico per spargere le proprie idee, sia all'interno delle sue opere che non, in cui fa passare che " È normale volerci scopare le quattordicenni", che è un crimine, direi che non c'è molto di cui dibattere.

► alessandra: Domanda molto complessa a cui rispondere in poche righe. Al di là della pedopornografia, su cui dovrebbe esserci una condanna unanime che spesso non c’è, come dimostra il caso Vivès, secondo me sarebbe il caso di mettersi in ascolto di chi si ritiene offeso o ferito da determinati contenuti. Si possono trattare argomenti controversi se si è capaci di farlo, penso a Promising Young Woman che è uno dei film più belli degli ultimi anni e che finalmente mi ha fatto sentire ‘vista’. E non è un caso che sia uno dei film più bistrattati dai cinefili maschi. Poi c’è tutto il discorso della separazione tra l’opera e l’artista, secondo me impossibile: se vai a vedere un film di Polanski devi essere cosciente del fatto che i tuoi soldi serviranno a sostenere una persona che da decenni sfugge alla pena dopo aver stuprato una minorenne. cecilia: Secondo me nelle intenzioni. Io sono liber* di esprimermi ma se sto comunicando a un pubblico devo tenere conto di a chi sto comunicando, in che contesto e con che modalità; se non si curano questi aspetti significa che mi sento liber* di esprimermi per farte violenza a qualcun* (un po' come il paradosso dell'intolleranza di Popper). L'arte può assolutamente provocare, ma chi o cosa intende provocare? Il potere? Il sistema? Oppure intende provocare indignazione sulla pelle di chi soffre e subisce violenza? Se si vuole provocare mostrando quanto può far schifo l'essere umano ci sono innumerevoli esempi nella storia vera, anche nel nostro presente. È difficile tracciare i confini di un crimine nel campo artistico; ma direi che nel caso specifico, se realizziamo opere pornografiche con la presenza di bambin*, in qualunque modo siano presenti (3D o 2D), allora è pedopornografia, e quindi è un crimine. In un saggio sulla critica etica nell'arte, Ted Nannicelli ricercava il discrimine del giudizio nel fattore oggettivo, quindi nei mezzi utilizzati per creare un'opera artistica: ho commesso violenza per realizzarla? Ne ho parlato facendo violenza? L'ho spiegata facendo violenza? Perché l'interpretazione sarà sempre soggettiva.

► sara: questa domanda mi riguarda quasi personalmente sia per il fatto che lavoro con le infanzie sia perché ho trattato direttamente l’argomento sul mio profilo. L’infanzia è la grande assente del dibattito pubblico, non c’è nessun luogo sicuro per le persone piccole. Dico questo perché nessun* luogo è mai stato pensato per bambin* con l* bambin*: l’arte è molto spesso il teatro dove si consumano le violenze sui bambin*. Penso all* attor* bambin* come Shirley, Drew Barrymore Temple, Macaulay Culkin e allo scandalo Nickelodeon che hanno tutt* alle spalle una storia di sfruttamento e abuso dentro e fuori dal set, per non parlare del modo in cui vengono rappresentate le infanzie nei media: dai cataloghi di moda, ai programmi televisivi passando per i fumetti, l* bambin* che vediamo, indipendentemente dal loro genere, sono adultizzat* come ad esempio Hit girl di Kick-ass che ammazza e si sballa di stupefacenti, o/e sessualizzat* come accade a Mathilda in Leon e Renato in Malena dove si fanno costanti allusioni alla relazione, seppur platonica, tra persona adulta e bambin*.
è interessante osservare come gli oggetti del “massacro artistico” maschile siano sempre categorie che non hanno diritti, né voce né possibilità di difendersi adeguatamente penso ovviamente alle donne, a* bambin*, alle persone bipoc e queer arrivando fino agli animali non umani.
rimanendo nell'ambito dei fumetti e della cosiddetta libertà di espressione, so che da voi, in particolare da alessandra, è partito quello che ha preso il nome di shoujogate e che ha messo in luce non soltanto l'atteggiamento di quasi tutte le case editrici italiane che si occupano di manga ma anche - e soprattutto - quello di alcuni "influencer" abbastanza noti nell'ambiente. cos'è successo esattamente?
► alessandra: Leggendo i nuovi annunci manga del Lucca Comics ho notato che il target shojo era notevolmente sottorappresentato rispetto agli altri. E che è in realtà una tendenza che va avanti da diversi anni. Dovendo scegliere come presentarmi a Gameromancer ho ben pensato di scrivere di una cosa che conoscevo, non pensando che avrebbe scatenato quello che poi è successo. La richiesta di maggiori prodotti a target femminile ha fatto arrabbiare più del previsto i lettori e i content creator che si occupano di manga. La risposta è stata da subito violenta, dalla semplice risata alla minimizzazione della questione, passando a insulti veri e propri alla mia persona - anche se nessuno mi conosceva - e a tutte le altre di GR, compresa Maura che tutti hanno da subito identificato come 'la femmina di GR'. Credo che l'apoteosi si sia raggiunta con il video in cui un noto youtuber mi insultava in rima dandomi dell'oca starnazzante. La questione era semplicemente: di shojo manga si porta poco e spesso di scarsa qualità, facendo passare il messaggio che i prodotti appartenenti a quel target non siano degni di considerazione. Le edizioni shonen sono spesso più curate, accompagnate da gadget e cartoline, pagine a colori. Sullo shojo spesso si ricade sempre sulle solite 3-4 autrici che si ritiene funzionare in Italia e comunque si porta tendenzialmente la metà dei titoli a target maschile. Come mai? Da qui il mio sfogo sulla necessità di sentirmi 'vista' da qualcuno, se non dalle case editrici almeno da chi aveva ravvisato il mio stesso problema. E almeno quello è successo, viste le tante lettrici - femminile sovraesteso per praticità - che si sono riviste nelle mie parole.

non è nemmeno la prima volta che certi personaggi usano questo linguaggio, eppure le case editrici continuano a collaborare con loro...
► maura: Forse perché portano loro valore economico? Una delle maggiori questioni che è stata utilizzata per sminuire la causa infatti è stata proprio "Le case editrici portano quello che vende". Qui, secondo me, c'è una grossa critica al capitalismo da fare. Non si può giustificare tutto perché "porta soldi". Non si può giustificare la mancanza di rappresentazione con la scusa che "i prodotti da femmina non vendono". A parte il fatto che non è vero, quanti prodotti a target maschile vengono importati anche se non vendono? Una grandissima quantità. Allora perché non si può fare la stessa cosa con i prodotti a target femminile?

► cecilia: Come se il pubblico non venisse guidato. È vero che ci sono casi inaspettati, ma per l'editoria italiana sembra siano tutti casi inaspettati, anziché lavori promossi accuratamente, discussi da influencer e critica, a cui viene dato spazio fisico e online. alessandra: Tra l'altro a proposito di questo, per altri autori, target e generi non ci si è preoccupati troppo di quello che vendeva o meno: penso al grande lavoro fatto da Coconino con Kamimura, che non è certamente un autore facile per temi, stile di disegno e anche per reperibilità dei materiali. Banalmente per avere Moto Hagio e Keiko, che hanno fatto la storia del manga shojo e non solo negli anni '70, Takemiya in Italia abbiamo dovuto aspettare il 2016 ed è stata comunque portata in Italia solo una minima parte della straordinaria produzione di quegli anni.

► sara: la cosa che mi fa ridere è il fatto che passano gli anni ma questa bolla va avanti a suon di postulati mai verificati e sempre basati sullo sguardo maschile sulla vita, l’universo e tutto quanto.
Per me le due problematiche maggiori della questione “Shoujo-gate” sono il fatto che gli uomini nerd, siano terrorizzati da chiunque abbia un’idea diversa dalla loro e utilizzino il loro potere mediatico per silenziare violentemente le voci discordanti anche attraverso la loro utenza.
La seconda cosa è che le case editrici non vogliano mai entrare nel discorso di responsabilità dei content creator: non dico di trasformarci negli Stati Uniti, dove una cosa detta nel 1000 a.C ti costa il posto nel 2023 senza possibilità di appello, però nemmeno far finta di niente.
Per me è inconcepibile che si continui a passare sopra a certe modalità di comportamento e a certi linguaggi, continuando a collaborare allo stesso modo con vittime e carnefici soltanto per non perdere like e vendite.
a proposito, non ci sono state case editrici che hanno speso due parole su questo argomento e soprattutto sugli atteggiamenti offensivi di questi personaggi? senza contare che la maggior parte delle persone che leggono sono donne…
► flavia: zero, anzi molti di questi personaggi continuano attivamente a collaborare con loro. La speranza è che però il buzz che si è creato in rete spinga le case editrici a rivedere le loro strategie, magari facendo le ricerche di mercato che ad oggi evidentemente non si fanno. Come libraia faccio fatica a trovare shojo, tutti quelli che riesco a trovate sono tradotti in francese o un inglese. In più c'è lo snobismo che vedo spesso quando si toccano certi argomenti, come se il manga fosse qualcosa da ridurre agli adolescenti, insieme al fumetto, escludendo le graphic novel disegnate dai soliti 2-3 autori.

► maura: [la maggior parte delle persone che leggono sono donne] Non secondo il maschio nerd medio. Secondo il maschio nerd medio cito "Le donne dopo l'adolescenza lasciano gli interessi nerd per dedicarsi a questioni come i trucchi e l'estetista".

► alessandra: E infatti se lo shojo è poco presente il josei - il target per donne adulte - è ormai quasi del tutto assente, fatta eccezione per alcune case editrici che accettano il rischio di pubblicare titoli 'di nicchia', ma con edizioni spesso inaccessibili a livello di prezzo.

evidentemente non hanno mai parlato con delle donne... cambiando di poco argomento, io conosco poco il mondo dei videogiochi ma so che sa essere tanto violento e misogino di quello degli appassionatə di fumetto, se non forse ancora di più. com'è essere una gamer donna e/o queer?
► alessandra: Sull'ambito videogiochi lascerei la parola a Maura che è più ferrata. Diciamo che il pattern in tutta la cultura nerd è sempre lo stesso: "Ok, ti piace questa cosa... dimostrami che ne capisci davvero". E nei videogiochi questo si amplifica al mille per mille, se vuoi avere diritto di parola devi dimostrare molto più dei tuoi colleghi di aver giocato almeno un tot di titoli di quella tipologia, altrimenti non ne sai abbastanza. Se ti puoi accontentare di un uomo mediocre non puoi fare altrettanto con una donna che sia semplicemente 'brava'.

► cecilia: Io sono una giocatrice occasionale, ma confrontandomi con persone che vengono sia dal mondo dei videogiochi che da quello dei giochi da tavola ho scoperto che noi nel fumetto, a quanto pare, siamo quell* mess* peggio.

► maura: Oltre alle classiche discriminazioni che sono più "alla luce del sole", o che comunque sono state denunciate di più, come il classico commento sessista nelle chat dei videogiochi online, ci sono anche delle microaggressioni che invece restano più invisibili. Ad esempio, si sente spesso dire che "le donne non giocano ai videogiochi" quando, facendo rete e parlando tra noi donne nerd, abbiamo scoperto semplicemente che molte di noi hanno sempre vissuto la loro vita videoludica in solitaria, sia perché l'ambiente dei gruppi nerd, composti al 99% da uomini, non è safe, sia perché non andava di essere giudicata dai King in base a ciò che giocavamo o come lo giocavamo. Ma soprattutto, molte di noi nascondevamo (e nascondono) la loro identità quando giocano online per non essere molestate o per non ricevere proposte di matrimonio indesiderate - avrò ricevuto almeno 100 proposte di matrimoni, feticizzazione che si basava solo sul fatto che giocassi ai videogiochi e che avessi una vagina. Alle persone socializzate come donne sono sempre stati fatti dei test per vedere se davvero "ne sapevano di videogiochi". Questo fenomeno viene definito Gatekeeping. Ovvero gli uomini nerd credono di possedere le chiavi del portone che ti faccia entrare all'interno della loro bro culture e sono gli unici che possono giudicare se sei abbastanza una VERA VIDEOGIOCATRICE. Ciò che viene considerato Cult è stato scelto dall'élite che è stata sempre in cima alla piramide della nerd culture, quindi gli uomini, noi donne ci siamo sempre dovute adattare per dimostrare che ne sapevamo qualcosa di videogiochi (o comunque di cultura nerd in generale). Abbiamo quindi sia giocato ai giochi (letto i fumetti) considerati CULT, mentre giocavamo anche ai giochi che vengono spesso considerati "da femmina". Da tutte queste discriminazioni arriviamo quindi all'ambito lavorativo dove spesso viene detto "Non ci sono donne brave che si occupano di videogiochi", perché sono loro a credersi "quelli bravi" che hanno la fama da King, da Maestro. Noi per essere prese in considerazione dobbiamo costantemente dimostrare la nostra cultura videoludica, e comunque non è mai abbastanza, perché loro non hanno intenzione di cedere nemmeno un minimo del loro spazio, per paura di essere finalmente smascherati per quello che sono, ovvero semplicemente mediocri.
direi che la situazione non è affatto rosea però c'è un sacco di consapevolezza e questa mi sembra una buona base da cui partire... secondo voi cosa serve per decostruire lo stereotipo del nerd maschio-cis-etero e iniziare a riappropriarsi di spazi che non siano solo marginali o concessi?
► cecilia: Secondo me la chiave è costruirci i nostri spazi e fare un sacco di casino annesso. Il casino aiuta le persone isolate a notare che esistono altre realtà e a convogliarvi; non dobbiamo per forza lottare per uno spazio, possiamo (e lo stiamo facendo) costruire alternative. Penso che il processo di consapevolezza sia collettivo e che stiamo consolidando una rete trasversale e accogliente che possa fare davvero resistenza da dentro gli spazi ostili; ma dobbiamo anche avere spazi in cui prenderci cura di noi e realizzare un'alternativa. Più ci moltiplichiamo (e intendo, più prendiamo coscienza) più faremo pressione per essere ascoltat*, che sia tra le nostre conoscenze, che sia tra collegh*, che sia a un pubblico.

► maura: La differenza tra la decostruzione femminista e quella del maschile ha sempre mancato di una cosa fondamentale, ovvero la rete. Noi donne (nerd e non) facciamo rete, ci confrontiamo, ci decostruiamo, come ci ha insegnato il femminismo. Loro non fanno rete, loro fanno cameratismo, loro costruiscono il branco, che è molto diverso. Deve partire da loro in primis, devono mettersi in posizione d'ascolto, non devono avere più paura delle donne che parlano. All'interno del mondo nerd, ancora molti uomini anche alleati, si sentono minacciati quando una donna parla, di femminismo e non, perché "non vogliono che gli si venga rotto il cazzo", "non vogliono che il loro divertimento venga interrotto". Quindi quello che posso consigliare è di imparare a mettersi in posizione d'ascolto nei confronti dei gruppi marginalizzati e a parlare tra di loro in modo non cameratesco per imparare a decostruirsi. Quello che dobbiamo fare noi invece è continuare a non stare zitte. Simple as that. Continuare a canalizzare quella rabbia trasformativa nella lotta per i nostri diritti per farci ascoltare e non essere più invisibili.

► alessandra: Credo che intanto si debba creare coscienza nelle persone: spesso chi è marginalizzato non ha la consapevolezza di esserlo non perché sia stupid*, ma perché è abituat* ad accontentarsi dei pochi spazi lasciati liberi. Ci si accontenta del pre-show di un evento seguito da migliaia di persone, di recensire titoli secondari, di fare la quota rosa o queer. Serve prendersi tutto lo spazio possibile e usarlo anche per denunciare questo modus operandi. Come diceva Michela Murgia, impariamo a contarci. Bisogna fare rumore e non spaventarsi della possibilità, molto concreta, di essere additat* come il guastafeste della situazione, e bisogna imparare a non seguire chi non ritiene che il 'tutti maschi' sia un problema. Per il resto bisogna continuare a coltivare gli spazi sicuri, che sono preziosissimi, continuare a fare rete ed evitare chi non è abituato a mettersi in discussione e a decostruirsi.

► flavia: Io nel mio piccolo sto cercando di creare degli spazi, di non essere escludente, ma noto che si fa fatica. Nei manga la maggior parte degli autor* sono i soliti, si fa fatica a trovare le novità, a meno che non siano pubblicate da case editrici piccoline o semisconosciute. Sembra che nelle case editrici ci sia una pigrizia diffusa, che in fondo non si voglia approfondire l'argomento. maura: Io volevo solo dire che mi è stato fatto più male da uomini che si professano alleati, che non sono pronti ad ascoltare, piuttosto che dai "gamergater".

► sara: io sogno un mondo dove possiamo avere le nostre fiere, le nostre fumetterie, i nostri festival e canali, i nostri server… che non vuol dire “senza uomini” ma accessibili solo a uomini che non desiderano entrare nei nostri spazi per trovare terreno di caccia o seminare distruzione.
Posti dove poter respirare un po’, non avere paura e poter costruire qualcosa: relazioni, progetti, interessi.

questo è un po' quello che succede in ogni ambito in cui ci si professa alleatə solo per pulirsi la coscienza ma poi, nella sostanza, cambia poco. mi sembra che sia un modo per sottolineare che il punto non sia poi tanto la bolla nerd quanto l'atteggiamento patriarcale ed escludente della nostra società tutta.
► maura: La nostra società tutta è patriarcale. È logico poi che i sottoambienti che si sono venuti a creare, come quello nerd appunto, hanno delle problematiche specifiche, ma che ovviamente si riconducono alla stessa matrice. Molti maschi si professano alleati finché non devono davvero attuare le pratiche femministe. Non capiscono il privilegio che hanno. Non capiscono che noi non siamo tenute a spiegare con calma e tranquillità cose che abbiamo studiato e vissuto per anni e anni e che abbiamo ripetuto all’infinito. Credono che l'attivismo femminista sia un post, un like, una condivisione, e il giorno dopo possono continuare a vivere da privilegiati quali sono, mentre sappiamo tuttɜ che bisogna essere femministi tutti i singoli giorni e bisogna continuamente dimostrarlo soprattutto quando le compagne stanno facendo richieste femministe che comportano uno sforzo vero. La decostruzione di tuttɜ noi non finisce mai, non finisce quando una compagna spiega due nozioni femministe, bisogna decostruirsi sempre, leggere, studiare e informarsi costantemente sulle istanze femministe. Senza piangere preferibilmente.

► sara: La questione dei “falsi alleati” è una cosa che mi fa arrabbiare tantissimo, perché hanno capito che parlare di questioni femministe porta like, popolarità e tanto pubblico queer, che ti pulisce la coscienza, e tanto pubblico femminile che ha un disperato bisogno di uomini femminista.
La maschera di queste persone cade subito dopo un semplice scambio di battute: si capisce subito che tutto ciò che vogliono è mettersi al centro della lotta e portare avanti i propri scopi.
spero che anche questo sia stato un momento costruttivo e che, magari, da questa bella chiacchierata nascano altre riflessioni! vi ringrazio tantissimo per essere state qui con noi e vi faccio mille imboccallupo per i vostri progetti!
► alessandra: grazie a te per la bella iniziativa, è stata utilissima e soprattutto mi ha fatto interagire con persone bellissime!

► cecilia: Grazie infinitamente a te, anche tu fai parte della rete attiva di resistenza!

► maura: Grazie Claudia, grazie veramente per lo spazio e per averci dato voce ❤️

► sara: è stato emozionante confrontarci e vedere quanto abbiamo in comune e spero sia il primo di altri progetti corali! 

link di approfondimento:

martedì 9 gennaio 2024

il focolare è una bestia affamata

avrei potuto passare il natale nel mio appartamento, io e i ragazzi ci saremmo scambiati i regali sotto un alberello di plastica, poi avremmo visto un film, avremmo fatto un gioco da tavolo. invece sono qui, trascinato nell'incubo di mia sorella.

ci siamo appena liberatə del natale, dell'incubo dei regali e dei pranzi e delle cene e dei parenti ed ecco che vi ci ritrascino insieme ad angelo maria perongini perché il suo il focolorare è una bestia affamata (nuovo tardigrado, anche questa volta a cura di valentina presti danisi) non si limita soltanto a ricordarci di quanto le riunioni di famiglia durante le feste possano essere gradevoli come una carie il venerdì sera, anzi!
ammetto che quando ho iniziato a leggere questo brevissimo romanzo ero parecchio scettica: abbiamo scritto romanzi e racconti, girato film, photoshoppato meme e articolato lamentele sempre più divertenti (o sempre più drammatiche) su quanto possa essere pesante questo periodo quindi, mi chiedevo, cosa c'è di così fantastico da far entrare nella collana tardigradi un racconto che parla proprio del natale in famiglia? però angelo fa questa cosa che piano piano ti trascina in una sorta di incubo allucinato...
c'è qualcosa qui che riesce a essere allo stesso tempo come dovrebbe essere eppure fuori posto. come quando guardi la tua stanza in uno specchio.
lando aveva programmato di passare il natale insieme allə amicə, una serata tranquilla nel suo appartamento, con tanto di alberello plasticoso, scambio di regali, cenetta, film e partita a qualche gioco da tavolo. però come fare a dire no a vivi, a sua sorella, e alla sua richiesta di passare il natale con loro, con la mamma che sta sempre peggio e - assicura - senza il resto dell'orrido parentame?
come fare a deludere tuttə, a deludere la mamma che ormai vive in un mondo che si è costruita dentro la sua testa, a deludere vivi che ha rinunciato a tutto pur di accudirla, di non farla finire in una casa di riposo? e, soprattutto, come fare a mettere a tacere i sensi di colpa da figlio che è andato via, che si è fatto una vita fuori, lontano da casa e dalla vischiosa malinconia che custodisce al suo interno, quel grumo di ricordi sbiaditi, fagocitati dalla realtà di un presente disperante che non lascia spazio a qualche sogno per il futuro?
lando accetta, a malincuore, e torna a casa, con la promessa che saranno solo loro, lui, vivi, la mamma e il papà, una placida vigilia in famiglia a ricostruire il presepe della loro famiglia sgangherata e ormai spezzata. niente ziə, niente cuginə, nessunə se non loro. e invece.

il suono del campanello, in il focolare è una bestia affamata, funziona come le trombe degli angeli che annunciano l'apocalisse. è un abbaiare cupo o un urlo lancinante che scatena paura e angoscia e non soltanto perché annuncia l'arrivo del resto della famiglia, aragosta compresa.
fermiamoci un attimo qui: tuttə, o quasi, ci ritroviamo con qualche parente imbarazzante.
lo zio fascista, la zia omofoba, la cugina che non smette di giudicare vestiti, acconciature e girovita altrui... ovviamente, nella famiglia di lando il bestiario si presenta al completo, un meme vivente, il peggio della società piccolo-borghese incarnato in un quintetto che sembra uscito dal catalogo degli orrori natalizi. e insieme a loro c'è l'aragosta, il cibo del ricatto, il pegno da pagare per non essere semplici ospitə, per non sentirsi scrocconə, per ripagarsi il diritto di essere presenti.

così, tra i commenti - diciamo - inopportuni sulla vita privata di lando e vivi e le uscite infelici della mamma, la cena si trasforma velocemente in un perfetto disastro, condita dal sugo che la piccola neve, progenie della cugina (lei, sì, con una vita privata ben realizzata e come si conviene), fa schizzare sui vestiti di tuttə. ed è per neve che viene organizzata la consueta recita dell'arrivo di babbo natale, lo zio camuffato che esce di nascosto per poi suonare il campanello, lasciare alla bambina il sacco con i regali e tornare velocemente a indossare di nuovo i suoi panni, per non turbare i sogni infantili della piccola peste.
momento idilliaco che segna - ancor più del primo scampanellio - l'inizio della tragedia.

perché può esserci molto di peggio che una cena spiacevole con lə parenti, molto di peggio che dei commenti inopportuni, dei parenti mezzo fasci.
ad esempio, può succedere che una bambina svanisca nel nulla.
e che la sua sparizione inneschi un processo a catena in cui lentamente la realtà si ripiega su sé stessa, ridefinendosi e, allo stesso tempo, risignificando episodi sepolti in profondità nella memoria di lando e nella coscienza di vivi...

il focolare è una bestia affamata è un racconto che mi ha davvero sorpresa e incantata, mi ha trascinata in un vortice fatto di bugie, rimorsi e colpe, di realtà distorte e rivelazioni. un esordio, quello di perongini, davvero stupefacente!

giovedì 4 gennaio 2024

kalpa imperial

il fatto è che una vita, come un racconto, è composta di tante parti e ogni parte da altrettante parti sempre più piccole. ma per piccole e banali che siano, una parte di un racconto è un racconto e una parte di una vita è una vita.

kalpa imperial viene pubblicato per la prima volta in argentina in due volumi, usciti rispettivamente nel 1983 e nel 1984 ma ci vorranno circa due decenni prima che arrivi in traduzione a un pubblico più vasto, grazie al lavoro di ursula k. le guin che lo consegna allə lettorə anglofonə nel 2003.
in italia, invece, bisognerà aspettare il 2022 e la traduzione di giulia zavagna per rina edizioni ma se pure sono passati quasi quarant'anni dalla sua prima edizione, il capolavoro di angélica gorodischer, pur legato alla cronaca argentina della sua epoca, come vedremo, pare vivere fuori dal tempo.
e a proposito di tempo: kalpa è un termine sanscrito che indica, nella cosmologia induista, un ciclo cosmico - detto anche giorno di brahma - lungo 4.320.000.000 anni. il kalpa sta alla base della teoria per cui il tempo non scorre in modo lineare ma in cicli che si ripetono. è durante questo eterno ritornare su sé stesso che avvengono i processi di emanazione, durata e riassorbimento dell'universo con momenti di distruzione parziale o totale (fonte wikipedia).

kalpa imperial racconta del più grande impero mai esistito, un impero che non ha nome perché nulla pare esistere al di fuori. l'impero cade e risorge innumerevoli volte, non ha inizio e non ha fine, si trasforma infinitamente alimentandosi di sé stesso, espandendosi nel tempo come nello spazio:
vasto è l’impero, disse il narratore, così vasto che la vita di un uomo non basta a percorrerlo tutto.
la storia dell'impero non è scritta ma raccontata oralmente: disse il narratore è la formula magica che apre quasi tutti i racconti - o i capitoli, se preferite immaginare kalpa imperial come un romanzo - e in quel dire c'è la capacità delle storie di mutare la loro pelle come serpenti, di essere sempre uguali a sé stesse eppure sempre diverse ogni volta che qualcunə presta loro la propria voce e le racconta.
undici storie - o capitoli - undici voci, undici momenti - a volte lunghi secoli - della storia dell'impero, impero che designa tanto l'immenso territorio amministrato dall'imperatore (o, a volte, dall'imperatrice) quanto l'istituzione stessa del potere imperiale.
perché la storia dell'impero è la storia del potere e kalpa imperial viene scritto proprio durante l'ultima fase della dittatura argentina e il ritorno della democrazia, come spiega loris tassi nella sua prefazione. così, immaginario e reale si mescolano e diventano uno specchio dell'altro e il primo racconto/capitolo inizia così:
il narratore disse: ora che soffia un vento propizio, ora che sono finiti i giorni di incertezza e le notti di terrore, ora che non vi sono più accuse né persecuzioni né esecuzioni secrete, ora che il capriccio e la follia sono scomparsi dal cuore dell'impero, ora che noi e i nostri figli non siamo più assoggettati alla cecità del potere [...]
e continua con una delle pagine più belle e ricche di vita che abbia mai letto, della vita come un prisma che riflette immagini e luce e momenti in cui la gioia di esserci, semplicemente, assume mille forme.
kalpa imperial racconta il potere che viene anelato, conquistato e poi perduto, che viene strenuamente difeso e desiderato, amministrato con saggezza o sfruttato con arrogante egocentrismo, a volte fino alla pazzia. potere che è sempre un dolce veleno, che è pericoloso per chi lo detiene e per chi lo subisce.
si parla del potere secolare, quello di una persona sul resto della moltitudine di esistenze, ma anche del potere della memoria e della parola, che è lo strumento per conservarla, tramandarla o mistificarla, potere che appartiene al narratore e che nessun guerriero, comandante o imperatore può eguagliare.
raccontare storie, quindi, non significa semplicemente mantenere in vita il ricordo della realtà, di un'unica realtà, perché questa è in sé stessa molteplice e perché la memoria è malleabile. raccontare storie è di per sé la forma di potere più grande, capace di orientare il presente attraverso la rievocazione - o l'invenzione - del passato, capace persino di plasmare il futuro. un potere enorme che si esplicita tutto in una frase chiave del libro:
questa storia è vera e falsa come tutto ciò che raccontano gli uomini.
il raccontare, in kalpa imperial, diventa così l'azione che mette insieme lo spazio finito e il tempo preciso del reale - dell'argentina visibile in filigrana attraverso le pagine - e lo spazio indefinito e il tempo millenario del mito in cui echeggiano i poemi greci, le fiabe classiche e le pagine bibliche, i mondi di tolkien e le città invisibili di calvino, autore a cui gorodischer dichiara di essere grata per l'incoraggiamento ricevuto.
nelle storie dell'impero c'è tutto ciò che l'impero è, è stato e sarà sempre, in quel ciclo temporale dove passato, presente e futuro coincidono con l'idea di memoria, di esperienza e di possibilità: bambini che diventano imperatori, impostori che salgono al trono, uomini che criticano il potere, imperatrici bugiarde, battaglie e guerre, palazzi e città che continuano a sorgere sopra le loro stesse rovine, che alternano splendore e decadenza, ci sono imperatori folli e nefasti e lascivi e altri buoni e coscienziosi e imperatrici sagge che anelano alla conoscenza, anni di paura e incertezza e altri di riposo e serenità e ci sono i cantastorie a custodire tutte queste storie e, sempre, orecchie pronte ad ascoltarle.
vasto è l'impero e popolato di moltitudini ma è facile immaginare le sue città svuotate e dimenticate per sempre, abbandonate ai secoli e restituite alla natura, città che - nella quasi utopica fantasia di un mondo senza testimonianza umana - avrebbero forse la loro forma più perfetta:
tutto a poco a poco si coprì di muschio e di licheni e di piante e crebbero fiori acquatici nelle piscine abbandonate e varietà di drahilea nelle capigliature di marmo delle statue. sembrava morbida e carnosa, fatta di foglie e steli verdi ingrossati dalla pigra linfa. molti dicono che non fu mai così bella, ed è possibile che abbiano ragione. si confondeva con le montagne e con quel che cresceva sulle montagne; fu parte della terra dalle cui viscere era sorta, dalle profondità delle caverne. forse sarebbe stato giusto che continuasse così, e oggi sarebbe una città vegetale abitata da uomini salici e donne palme, una città che oscilla con il vento e canta e cresce sotto il sole.
kalpa imperial è una raccolta di meraviglie, evocate dalla voce dei narratori, inventate dallo sguardo della fantasia di chi ascolta e dipinge nella sua mente, di chi richiama alla memoria, di chi inventa futuri lontani, di chi impara a comprendere il presente.
ed è un inno alla forza delle storie e del potere della narrazione, alla possibilità che solo le parole hanno di farsi strumento capace di scardinare persino il potere dei regnanti. o dei tiranni.