agilulfa alza una mano benedicente. il lupo perde la ferocia e si avvicina mansueto, le posa il capo sul grembo come un cane dopo le botte.«la buona santa lo legò con la cintura. poi chiamò la gente che accorse con bastoni e coltelli: gli levarono la pelle per donarla alla cacciatrice gentile e ne bruciarono le carni. infine, nella grotta della bestia costruirono il nostro eremo...»
probabilmente pecchiamo di troppa fantasia quando proviamo a immaginarci cosa sarebbe un matriarcato e iniziamo a pensare a pensare a donne libere e felici che danzano nei boschi, senza uomini nei dintorni. ma un sistema matriarcale che semplicemente fa proprie le logiche e gli strumenti di quello patriarcale, non assicurerà alle donne i diritti di libertà, sicurezza e piena realizzazione di sé che chiedono da secoli.
eppure, siamo così stanche di millenni di dominazione maschile che continuiamo a visualizzare nelle nostre menti l'idillio ogni volta che ci ritroviamo a fantasticare su questa parola che tanto ci affascina.
quando ho visto i primissimi annunci di nella verde gola delle lupe, ho iniziato anche io a fantasticare di donne selvagge e libere dalla perenne riduzione di tutto il loro essere al loro ruolo di madri/spose. e ho, colpevolmente, sbagliato.
la comunità che vive nel folto del bosco è una società matriarcale e di sole femmine, ma tutt'altro che libera e selvaggia. le lupe vivono un'esistenza di regole da educande e ruoli ben stabiliti, intimamente connessi ai loro corpi e scanditi dalle trasformazioni fisiologiche che questi subiscono con il tempo. figlie, sorelle, madri, zie, nonne: sono sempre e soltanto qualcosa in relazione alle altre donne che le hanno generate, che hanno generato o con cui hanno condiviso il grembo materno.
il potere, all'interno della comunità, è in mano alle anziane, le quali istruiscono le giovani - scegliendo accuratamente in che modo farlo e cosa escludere da questa educazione - e decidono del loro futuro, se saranno o meno lettrici dell'unico libro in loro possesso, quello che racconta la storia di santa agilulfa e del lupo.
la santa, senza neppure tentennare davanti alla possibilità di conoscere il segreto che la grossa bestia - nera e capace di camminare su due piedi - dice di conoscere e di poterle confidare, la uccide e libera la grotta dove adesso vivono le lupe. perché - duemila anni di cristianesimo ce l'hanno insegnato bene - la donna saggia e giusta è quella che non si lascia trascinare dalla curiosità, uno dei tanti peccati in cui le donne sono così brave a scivolare... agilulfa è la fede e l'obbedienza che rinuncia alla conoscenza.
così le giovani crescono imparando a non fare domande, a fidarsi ciecamente delle altre più grandi, a obbedire, anche quando questo significa reprimere i propri sentimenti per una madre o una sorella morta, o temere quello che non si conosce. obbedire anche quando questo vuol dire ignorare tante cose, anche quelle che riguardano il loro stesso corpo.
cos'è che fa gonfiare il ventre delle madri? come fanno le donne a partorire bambine (perché i maschi vengono puntualmente abbandonati nel bosco, poco importano i sentimenti di una madre, queste sono le regole)? cosa succede alle vergini dopo il primo sangue? cos'è la congiunzione?
le risposte, per noi, non sono poi così difficili da immaginare.
lucrezia pei e ornella soncini immaginano un'italia in pieno rinascimento, anche se collocata in un universo alternativo, in cui, dal disequilibrio numerico tra maschi e femmine, le comunità si sfaldano e nuovi gruppi nascono tra le loro sfilacciature, come quello delle lupe.
quello che però manca a queste donne è la consapevolezza di ciò che sono e un intento politico che possa giustificare il loro modo di vivere e permetterle di figurarsi un obiettivo che sia più di "ci nascondiamo dai maschi ma ci accoppiamo con loro e facciamo accoppiare con loro le nostre figlie". quello che manca è un vero sentimento di sorellanza e fa male, malissimo SPOILER (TW STUPRO) leggere di ragazzine condotte nel bosco da madri e sorelle che finiscono per essere stuprate da uomini sconosciuti di cui, fino a poche ora prima, non sospettavano neanche l'esistenza.
quella delle lupe è una comunità di donne che, in fin dei conti, vivono secondo l'idea patriarcale di donna-utero, di donna destinata a produrre prole (altre femmine-riproduttrici o altri maschi-forza-lavoro), di donna silenziosa, obbediente, di donna che si prende cura delle bambine, delle giovani e inesperte ragazze, delle anziane ormai non più autonome.
fuori da quei ruoli, per le lupe non si disegnano altre possibilità.
al di là della trama, quello che rende difficile la lettura - o, almeno, l'ha resa difficile per me - è un linguaggio volutamente anacronistico e antico che, se da un lato ci lascia percepire la distanza temporale della storia e aiuta a rendere l'atmosfera, dall'altro troppe volte si contorce su sé stesso, finendo per curarsi più della sua forma che della capacità di comunicare, e arrivando spesso a rendere macchinosi e poco chiari alcuni passaggi.
la lettura di questo racconto mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca, mi aspettavo forse un “messaggio” diverso, di rivendicazione di ruoli differenti, non sempre e non esclusivamente di subordinazione, almeno nella dimensione del fantastico, uno spazio in cui è possibile costruire o criticare e non soltanto replicare. mi aspettavo anche che il richiamo alla natura proponesse un rapporto più di tipo “simbiotico” tra donne-bosco-animali, mentre questi esistono solo come prede, per la loro carne o la loro pelliccia, e la vegetazione è giusto un elemento dello sfondo. insomma, forse il problema è stato più nella comunicazione che è stata fatta del libro e il tipo di aspettative che aveva generato (quantomeno in me) che altro. mi ero preparata sì a un viaggio in un passato alternativo e distopico ma anche di vedere una reazione diversa delle personagge alle vicende che sono costrette a vivere.
ultima nota: le illustrazioni di marco calvi mi sono piaciute moltissimo, soprattutto per il modo in cui riprendono e reinterpretano da una parte l'iconografia sacra classica e dall'altra quella quasi "neopagana", molto più vicina ai nostri tempi, trovando un linguaggio visivo coerente e uniforme che raccorda perfettamente le immagini e le inserisce senza soluzione di continuità nel racconto.