lunedì 11 agosto 2025

mentre il mondo guarda ~ intervista a gina nakhle koller / while the world watches ~ interview with gina nakhle koller

«A tutte le persone palestinesi del mondo: Questo libro è dedicato alla vostra resilienza, forza e incrollabile speranza di fronte a sfide inimmaginabili. Che la sofferenza finisca, che la giustizia prevalga e che il mondo agisca finalmente per portare pace e dignità nelle vostre vite.»
Gina Nakhle Koller


questo post è stato scritto in italiano e in inglese.
this post was written in italian and english. scroll down to read the english version.

la storia di un genocidio non è una storia di numeri e non si fa con le notizie che gocciolano tra le maglie strette della censura occidentale.
è stato detto tante volte, così tante che temo che il significato di questa cosa si sia perso, ma questo è davvero il primo genocidio in diretta streaming della storia dell'umanità. abbiamo visto centinaia di migliaia di fotografie e di video, abbiamo letto notizie agghiaccianti, ma soprattutto abbiamo visto i volti, letto i nomi e a volte le storie di tutte le vittime dell'abominio che israele sta compiendo impunemente, anzi, con il sostegno dell'europa e dell'america.
abbiamo le prove di tutto questo costantemente sotto gli occhi eppure non riusciamo a fermarlo. restiamo ad ascoltare i nostri governi e la nostra peggiore stampa sostenere menzogne su menzogne persino davanti all'evidenza, persino davanti alle innumerevoli manifestazioni che in tutto il mondo esprimono solidarietà alla palestina e chiedono il cessate il fuoco, la fine del blocco degli aiuti umanitari, delle uccisioni di massa, degli arresti illegali, dello strapotere dei coloni, di ogni tipo di abuso.

guardiamo tutto da quasi due anni eppure questi volti e nomi e storie rischiano di perdersi in un vortice gorgogliante di orrore, nei feed sconclusionati dei nostri social, dove la foto di un bambino fatto a pezzi si incastra tra il video di un gattino buffo e quello dell'ennesima, inutile ricetta.
tutto questo rischia di perdersi o, forse peggio ancora, di normalizzarsi, di diventare così tanto a fondo parte della nostra quotidianità da trasformarsi in un contenuto tra tanti.

gina nakhle koller sta provando, dall'inizio del genocidio, a far sì che questo non succeda.
il suo lavoro va a braccetto con quello dellә giornalistә palestinesә che da mesi - da decenni, in realtà, perché sappiamo tuttә che questa storia orribile non è iniziata il 7 ottobre 2023 - testimoniano a rischio della loro vita gli infiniti crimini israeliani a gaza e nei territori palestinesi occupati.


mentre il mondo guarda / while the world watches è la raccolta - in italiano e in inglese - delle vignette che ha disegnato e pubblicato ogni giorno dall'inizio del genocidio. le sue opere si ispirano alla cronaca quotidiana, raccontano l'inumanità dell'IOF e dellә suә sostenitorә: i bombardamenti sullә civilә, lә bambinә a pezzi e quellә mutilatә e quellә orfanә e quellә mortә di freddo o di fame, ridottә a scheletri. e poi le fosse comuni, lә sfollatә bruciatә vivә nelle loro tende, lә neonatә lasciatә morire di fame ammassatә dentro le poche incubatrici rimaste in funzione, gli ospedali e le scuole e le case e le università e ogni altro edificio civile raso al suolo, lә medicә e lә operatorә umanitarә e lә giornalistә presә di mira e uccisә, i cadaveri restituiti privi di organi, lә prigionierә rilasciatә dopo indicibili torture e il dolore folle nei loro sguardi, le ambulanze crivellate di colpi. e i soldati che ridono mentre uccidono, che si vantano di essere la peggiore espressione che l'umanità può inventare, i leader che applaudono agli assassini e l'industria bellica che gonfia oscenamente i portafogli di pochi, mentre a centinaia di migliaia vengono massacrati ogni momento.

leggere oggi mentre il mondo guarda è un modo per rivivere il primo anno di genocidio a gaza, per richiamare alla mente quello che è stato sommerso da centinaia di altre immagini altrettanto sconvolgenti e disastrose. ma è anche un modo per sottrarre quelle immagini al fisiologico oblio dei social network e trasformarle in storiografia contemporanea dell'abominevole condizione in cui è crollato il nostro mondo.

le vignette di gina sono sempre essenziali, il soggetto è spesso al centro dello spazio, circondato da bianchi o neri assoluti e dalle parole dell'artista che raccontano, citano o accusano. momenti di orrore strappati al ritmo frenetico dell'ultrainformazione dell'era social, fissati sulla carta - e sulle nostre coscienze, per sempre - da tratti veloci, netti, sicuri anche se carichi di emozione.
gina traduce in disegno tanto l'oggettiva crudezza di quelle immagini, quanto le reazioni del mondo - di partecipato dolore, di sdegno o, per alcuni soggetti in particolare, di compiaciuta complicità - diventando testimone non soltanto della cronaca di gaza ma dello scollamento, pericolosissimo, che sta avvenendo sempre di più tra i governi e i popoli che dovrebbero rappresentare.

ma c’è di più. il lavoro di gina – che non si è fermato alla pubblicazione del libro, ma continua sui suoi social e sul suo sito – non è semplicemente una trasposizione della cronaca, è – come è sempre l’arte quando si fa strumento di lotta contro il potere – un messaggio di denuncia, di accusa ma anche di speranza. gina, come altrә artistә palestinesә che abbiamo imparato a conoscere in questi lunghi mesi, è voce di un popolo che non vuole arrendersi e che è pronto a rinascere, con le radici ben piantate nella sua terra e l’animo teso al futuro.

vi lascio alle parole di gina. buona lettura!

ciao gina, grazie mille per aver accettato il mio invito e benvenuta su claccalegge!

► Ciao a tutti e grazie, Claudia, per avermi proposto questa intervista. Sono onorata di avere una piattaforma per parlare della Palestina.

in questi lunghissimi mesi di orrore, tutto il mondo ha guardato alla palestina, ha pianto, manifestato, condiviso le immagini di denuncia e testimonianza che sono state trasmesse ininterrottamente sui social, ha cercato con ogni mezzo possibile di contrastare l’impunità dello stato di israele. posso chiederti come ti sei sentita e come ti senti, da artista di origine palestinese e libanese, davanti alle notizie che arrivano ogni giorno da gaza e dalla west bank?

► Mi sento distrutta e spaventata, eppure in qualche modo più determinata che mai. Come artista libanese i cui nonni erano palestinesi, queste non sono solo delle notizie per me. È una questione personale. È una questione generazionale. Sono cresciuta con il peso della spoliazione, dell'occupazione e della cancellazione, ma nulla poteva prepararmi alla portata e alla brutalità di ciò a cui abbiamo assistito dall'ottobre 2023.

Ogni giorno porta con sé un nuovo orrore e ci sono momenti in cui mi sento completamente impotente. È un'angoscia profonda, che mi tocca l'anima. Ma anche nei momenti più bui, ho imparato che la disperazione non è la fine, è un invito ad agire. Ho molti alti e bassi. Sì, il genocidio è ancora in corso. Ma ciò che è ancora in corso è anche la solidarietà globale, il rifiuto di distogliere lo sguardo e la consapevolezza che abbiamo la responsabilità non solo di piangere, ma anche di mobilitarci.

quando e perché hai deciso di disegnare per denunciare il genocidio?

► Quando è arrivato il 7 ottobre, sapevo già cosa stava per succedere. Ho vissuto con la consapevolezza di come reagisce lo Stato israeliano: con punizioni collettive, con violenza schiacciante, senza alcun riguardo per la vita dei civili. Quindi, mentre il mondo stava ancora elaborando lo shock di quel giorno, io sentivo già il terrore insinuarsi dentro di me. Sapevo che Gaza avrebbe sofferto, ancora una volta, solo che questa volta su una scala ancora più inimmaginabile.

Quando ho iniziato questo progetto, ero devastata. Ero sopraffatta dal dolore, dalla paura e dall'impotenza. Guardando il genocidio svolgersi giorno dopo giorno, attraverso il mio telefono, i notiziari, le voci delle persone che imploravano di essere ascoltate, ho sentito il bisogno di fare qualcosa. Disegnare è diventato il mio modo di affrontare la situazione, di non chiudermi in me stessa. È stato il mio modo di sopravvivere emotivamente.

All'inizio era un meccanismo di difesa profondamente personale. Ma man mano che i disegni hanno acquisito visibilità, sono diventati qualcosa di più: una forma di testimonianza. Un modo per umanizzare i numeri, i titoli dei giornali, l'orrore. Per dare un volto ai nomi. Per affiancare l'emozione ai fatti. E quando le persone mi hanno detto che le immagini li aiutavano a capire o a sentirsi meno soli, è stato questo che mi ha spinto ad andare avanti.

sulla copertina del tuo libro c’è un occhio che viene spalancato a forza da due mani. come interpreti il rifiuto di molta gente di guardare le immagini di questi massacri, di provare a capire cosa sta succedendo?

► L'immagine sulla copertina – un occhio costretto ad aprirsi – è un simbolo doloroso di ciò che credo tutti noi dobbiamo affrontare: l'urgente necessità di vedere e non distogliere lo sguardo. Il rifiuto di molte persone di guardare queste immagini è straziante, ma purtroppo comprensibile. La brutalità è così opprimente, così devastante, che distogliere lo sguardo può sembrare un modo per proteggersi da un dolore o da un senso di colpa insopportabili.

Ma questo rifiuto permette anche alla violenza di continuare senza controllo. Quando le persone chiudono gli occhi, permettono al silenzio di diventare più forte della giustizia. L'immagine è un appello, una richiesta, a confrontarsi con la realtà, per quanto scomoda o dolorosa possa essere. Perché solo guardando, testimoniando, possiamo veramente comprendere il costo umano e iniziare a chiedere un cambiamento.

È un promemoria che l'indifferenza è complicità. E che il mondo non può più permettersi di essere uno spettatore passivo.

ogni giorno arrivano notizie terrificanti, tantissime. foto, video, dichiarazioni, interviste, eccetera. in che modo decidi quale sarà il soggetto della tua vignetta giornaliera?

► Seguo attentamente le notizie ogni giorno: è impossibile sfuggirvi. Il flusso costante di foto, video, dichiarazioni e testimonianze è travolgente. Scegliere un soggetto per ogni disegno quotidiano non è mai facile.

Non mi limito a scegliere ciò che è più riportato o scioccante; mi concentro su ciò che mi colpisce in modo diverso a livello personale o emotivo. A volte si tratta di un evento specifico: una famiglia presa di mira deliberatamente, l'uccisione di un giornalista o una storia particolare che rivela il costo umano dietro i titoli dei giornali.

Altre volte si tratta di catturare l'atmosfera più ampia di paura, resilienza o dolore che tanti stanno vivendo. Il mio obiettivo è tradurre ciò che mi commuove profondamente in qualcosa che gli altri possano sentire e comprendere. Ogni disegno è un modo per catturare un momento nel tempo e dire: questo è successo. Questo è importante.

il tuo lavoro va oltre la semplice idea di “pubblicare un libro”, credo che sia un documento fondamentale per raccontare e testimoniare questi mesi, uno di quelli che poi diventano vere e proprie fonti storiografiche a servizio degli studiosi che proveranno in futuro a capire il presente che siamo vivendo. quando e come hai deciso di trasformare il tuo lavoro online in un libro di carta, capace di arrivare a molte più persone di quelle che vedono le tue opere sui social?

► All'inizio, pubblicare un libro non era nei miei piani. Mi concentravo sul reagire al momento, sull'esprimere ciò che provavo giorno dopo giorno. Ma man mano che i disegni si accumulavano, mi sono reso conto che questo lavoro doveva andare oltre la natura dei social media.

I social media sono in rapida evoluzione: un luogo di reazioni immediate e condivisione veloce, ma anche un luogo in cui le cose possono essere dimenticate altrettanto rapidamente. Volevo creare qualcosa di più duraturo, qualcosa a cui le persone potessero aggrapparsi e a cui potessero tornare, una testimonianza tangibile di questi mesi.

Non si tratta solo di un momento nel tempo, ma di una parte di una storia molto più lunga di sofferenza, resilienza e resistenza. Trasformare il mio lavoro online in un libro cartaceo è stato un modo per preservare la memoria, per insistere affinché queste storie non vengano cancellate e per offrire una risorsa alle generazioni future e agli studiosi che cercano di capire cosa è successo.

Il libro diventa una forma di testimonianza, qualcosa di permanente in mezzo al dolore e alla lotta continua.

che tipo di feedback hai avuto sui social da quando hai iniziato a pubblicare i tuoi lavori? e come è stato accolto il libro?

► La risposta sui social media è stata incredibilmente commovente. Molte persone che seguono il mio lavoro erano entusiaste quando hanno saputo dell'uscita del libro: lo consideravano un passo necessario e molti mi hanno detto che stavano aspettando qualcosa del genere. Ho ricevuto molti feedback positivi, non solo sull'arte in sé, ma anche su come è stata utilizzata: condivisa con amici, familiari e soprattutto con persone che potrebbero non capire cosa sta succedendo o che scelgono di rimanere in silenzio.

Per quanto riguarda il libro, penso che sia stato accolto con un profondo senso di riconoscimento e urgenza. La gente capisce che non si tratta solo di un progetto artistico, ma di una documentazione, di una testimonianza. Credo sinceramente che fosse qualcosa che la gente aveva bisogno di vedere e sono grata che stia riscuotendo questo successo. Spero che la gente continui a parlare di ciò che sta accadendo e che il libro continui a diffondersi. Questo non può essere dimenticato. Né ora, né mai.

tantissime persone si chiedono ogni momento cosa possono fare concretamente per fermare il genocidio, e spesso si sentono impotenti. hai dei consigli da darci?

► È così facile sentirsi impotenti di fronte a qualcosa di così enorme e orribile come un genocidio. Lo sento dire continuamente: “Cosa posso fare? Sono solo una persona”. Ma la verità è che tutto inizia sempre da una sola persona. Ogni voce conta. Ogni azione, per quanto piccola possa sembrare, contribuisce a creare un'onda più grande di consapevolezza e resistenza.

Il primo passo è parlarne. Avvia delle conversazioni. Condividi la verità con le persone che ti circondano, specialmente con quelle che non prestano attenzione. La consapevolezza si diffonde da persona a persona.

Se potete, boicottate: la pressione economica è importante. Dove spendete i vostri soldi è un atto politico. E, naturalmente, condividere online è ancora potente. Potrebbe sembrare solo un post o una storia, ma non si sa mai chi raggiungerà o come potrebbe spingere qualcuno ad agire.

Non dobbiamo fare tutto noi. Ma se ognuno di noi fa qualcosa, il risultato è importante. È così che inizia il cambiamento.

ti ringrazio tantissimo per il tempo che ci hai dedicato e soprattutto di ringrazio per il tuo lavoro, per il tuo libro e per tutte le emozioni che ci sono dentro e che hai condiviso con noi. dal fiume al mare!

► Grazie Claudia! Per tutto e per essere una voce forte in questo momento di bisogno.

la biografia di gina nakhle koller è tratta dal sito di eris edizioni

Nata nel 1982 in Libano, è illustratrice e fumettista. Il suo lavoro affonda le radici nelle sue origini libanesi e palestinesi. Cresciuta tra le difficoltà di una regione turbolenta, Gina ha scoperto che l’arte è un potente strumento di auto espressione e di storytelling, un mezzo per entrare in contatto con la sua identità e per far luce sulle storie mai raccontate del suo popolo. La Palestina rimane un tema centrale nel lavoro di questa artista, alimentando la sua passione nel creare un’arte che catturi la resilienza, le lotte e l’umanità del suo popolo. Nel 2013 ha conseguito un Master of Arts in Illustration in Svizzera dove ore vive, approfondendo il suo impegno nel raccontare attraverso le narrazioni visive. La sua arte trascende i confini, invitando il pubblico a vedere il mondo attraverso la lente dell’empatia e a dialogare con le voci di coloro che troppo spesso non vengono ascoltati.

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«To all Palestinians around the world: This book is dedicated to your resilience, strength, and unwavering hope in the face of unimaginable challenges. May the suffering end, may justice prevail, and may the world finally act to bring peace and dignity to your lives.»
Gina Nakhle Koller

the story of a genocide is not a story of numbers, and it is not made with the news dripping through the tight meshes of western censorship.

has been said so many times, so many that i fear the meaning of this has been lost, but this is truly the first genocide live-streamed in human history. we have seen hundreds of thousands of photographs and videos, we have read chilling news stories, but most of all we have seen the faces, read the names and sometimes the stories of all the victims of the abomination that israel is carrying out with impunity, indeed with the support of europe and america.

we have the evidence of all this constantly before our eyes, and yet we are unable to stop it. we stand by and listen to our governments and our worst press support lies upon lies, even in the face of the evidence, even in the face of countless demonstrations around the world expressing solidarity with palestine and calling for a ceasefire, an end to the blockade of humanitarian aid, mass killings, illegal arrests, settler oppression, and all kinds of abuses.

we have been watching everything for almost two years, and yet these faces and names and stories risk getting lost in a bubbling vortex of horror, in the rambling feeds of our social networks, where the photo of a chopped-up child gets sandwiched between the video of a funny kitten and that of another useless recipe.

all of this risks getting lost or, perhaps worse, normalised, becoming so thoroughly part of our everyday life that it becomes just one piece of content among many.

gina nakhle koller has been trying, since the beginning of the genocide, to make sure that this does not happen.

her work goes hand in hand with that of the palestinian journalists who for months - for decades, actually, because we all know that this horrific story did not begin on 7 october 2023 - have been witnessing the endless israeli crimes in gaza and the occupied palestinian territories at the risk of their lives.


mentre il mondo guarda / while the world watches is a collection - in italian and english - of the cartoons he has drawn and published every day since the beginning of the genocide. his works are inspired by the daily news, recounting the inhumanity of the IOF and its suә supporters: the bombing of civilians, the children cut to pieces and those mutilated and orphaned, and those who died of cold or starvation, reduced to skeletons. and then the mass graves, the displaced people burnt alive in their tents, the infants left to starve to death crammed into the few remaining incubators, the hospitals and schools and houses and universities and every other civilian building razed to the ground, the doctors and aid workers and journalists targeted and killed, the corpses returned with their organs removed, the prisoners released after unspeakable torture and the mad pain in their faces, the ambulances riddled with bullets. and the soldiers laughing as they kill, boasting that they are the worst expression humanity can invent, the leaders applauding the killers and the war industry obscenely inflating the wallets of a few, while hundreds of thousands are slaughtered every moment.

reading today while the world watches is a way to relive the first year of genocide in gaza, to call to mind what has been drowned out by hundreds of other equally shocking and disastrous images. but it is also a way of rescuing those images from the physiological oblivion of social networks and transforming them into a contemporary historiography of the abominable condition into which our world has collapsed.

gina's comics are always essential, the subject is often at the centre of the space, surrounded by absolute whites or blacks and by the artist's words that recount, quote or accuse. moments of horror snatched from the frenetic rhythm of the ultra-information of the social era, fixed on paper - and on our consciences, forever - by quick, sharp, confident strokes, even if charged with emotion.

gina translates into drawing both the objective rawness of those images and the reactions of the world - of shared pain, of indignation or, for some subjects in particular, of complacent complicity - becoming a witness not only to the chronicle of gaza but also to the extremely dangerous disconnect that is happening more and more between governments and the peoples they are supposed to represent.

but there is more. gina's work - which has not stopped with the publication of the book, but continues on her social networks and on her website - is not simply a transposition of the news, it is - as art always is when it becomes an instrument of struggle against power - a message of denunciation, of accusation, but also of hope. gina, like the other palestinian artists we have come to know over these long months, is the voice of a people who do not want to give up and who are ready to be reborn, with their roots firmly planted in their land and their souls set on the future.

i leave you with gina's words. enjoy reading!


hello gina, thank you so much for accepting my invitation and welcome to claccalege!
► Hello everyone, and thank you, Claudia, for inviting me to this interview. I’m honored to have a platform to speak about Palestine. 
in these long months of horror, the whole world has looked at palestine, cried, protested, shared the images of denunciation and testimony that have been broadcast continuously on social networks, and tried with every possible means to oppose the impunity of the state of israel. can i ask you how you felt, and how you feel, as an artist of palestinian and lebanese origin, in front of the news that arrives every day from gaza and the west bank?
► I feel shattered and scared— and yet somehow more determined than ever. As a Lebanese artist whose grandparents were palestinian, this isn’t just news to me. It’s personal. It’s generational. I’ve grown up with the weight of dispossession, occupation, and erasure — but nothing could prepare me for the scale and brutality of what we’ve witnessed since October 2023.

Every day brings a new horror, and there are moments when I feel completely helpless. It’s a deep, soul-level anguish. But even in the darkest moments, I’ve learned that despair isn’t the end — it’s a call to act. I have many ups and downs. Yes, the genocide is still ongoing. But what’s also ongoing is the global solidarity, the refusal to look away, and the understanding that we have a responsibility not just to mourn — but to mobilize.  
when and why did you decide to draw to denounce genocide?
► When October 7th happened, I knew what was coming. I’ve lived with the knowledge of how the Israeli state reacts — with collective punishment, with overwhelming violence, with no regard for civilian life. So while the world was still processing the shock of that day, I already felt the dread settle in. I knew Gaza would be made to suffer, again — only this time on an even more unimaginable scale.

When I began this project, I was devastated. I was overwhelmed by grief, fear, and helplessness. Watching the genocide unfold day after day — through my phone, the news, through the voices of people begging to be heard — I had to do something. Drawing became my way of facing it, of not shutting down. It was how I survived emotionally.

At first, it was a deeply personal coping mechanism. But as the drawings gained visibility, it became something more — a form of testimony. A way to humanize the numbers, the headlines, the horror. To give faces to the names. To put emotion alongside fact. And when people told me the images helped them understand or feel less alone, that’s what kept me going.
on the cover of your book there is an eye being forced open by two hands. how do you interpret the refusal of many people to look at the images of these massacres, to try to understand what is happening?
► The image on the cover — an eye being forced open — is a painful symbol of what I believe we all face: the urgent need to see and not look away. The refusal of many people to look at these images is heartbreaking, but sadly, understandable. The brutality is so overwhelming, so devastating, that turning away can feel like a way to protect oneself from unbearable pain or guilt.

But that refusal also enables violence to continue unchecked. When people close their eyes, they allow silence to grow louder than justice. The image is a call — a demand — to confront the reality, no matter how uncomfortable or painful it is. Because only by looking, by witnessing, can we truly understand the human cost and begin to demand change.

It’s a reminder that indifference is complicity. And that the world can no longer afford to be a passive spectator.
every day terrifying news arrives, lots of it. photos, videos, statements, interviews, etc. how do you decide what the subject of your daily cartoon will be?
► I follow the news every day closely—it’s impossible to escape it. The constant flow of photos, videos, statements, and testimonies is overwhelming. Choosing a subject for each daily drawing is never easy.

I don’t just pick what’s most reported or shocking; I focus on what hits me differently on a personal or emotional level. Sometimes it’s a specific event—a family deliberately targeted, the killing of a journalist, or a particular story that reveals the human cost behind the headlines.

Other times, it’s about capturing the broader atmosphere of fear, resilience, or grief that so many are living through. My goal is to translate what moves me deeply into something others can feel and understand. Each drawing is a way to hold a moment in time and say: This happened. This matters.
your work goes beyond the simple idea of ‘publishing a book’, I believe it is a fundamental document to narrate and bear witness to these months, one of those which then become true historiographical sources at the service of scholars who will try in the future to understand the present we are living. when and how did you decide to transform your online work into a paper book, capable of reaching many more people than those who see your work on social networks?
► At the very beginning, publishing a book wasn’t something I had in mind. I was focused on responding to the moment, on expressing what I was feeling day by day. But as the drawings piled up, I realized this work needed to reach beyond the nature of social media.

Social media is fast-moving — a place for immediate reactions and quick sharing, but also one where things can be forgotten just as quickly. I wanted to create something more lasting, something people could hold onto and return to, a tangible record of these months.

This isn’t just about a moment in time — it’s part of a much longer history of suffering, resilience, and resistance. Turning my online work into a paper book was a way to preserve memory, to insist that these stories are not erased, and to offer a resource for future generations and scholars seeking to understand what happened.

The book becomes a form of witness — something permanent amid ongoing pain and struggle.
what kind of feedback have you had on social since you started publishing your work? and how has the book been received?
► The response on social media has been incredibly moving. So many people who follow my work were thrilled when they heard the book was coming — they felt it was a necessary step, and many told me they had been waiting for something like this. I‘ve received a lot of positive feedback, not just about the art itself, but about how it‘s been used: shared with friends, family, and especially with people who might not understand what’s happening, or who choose to stay silent.

As for the book, I think it‘s been received with a deep sense of recognition and urgency. People understand that this isn’t just an art project — it’s documentation, it’s testimony. I truly believe it’s something people needed to see, and I’m grateful it’s resonating the way it has. I’m hoping people keep talking about what’s happening — and keep getting the book into more hands. This can’t be forgotten. Not now, not ever.
so many people ask themselves all the time what they can concretely do to stop genocide, and often feel powerless. do you have any advice for us?
► It’s so easy to feel powerless in the face of something as enormous and horrific as genocide. I hear it all the time — “What can I do? I’m just one person.” But the truth is, it always starts with one person. Every voice matters. Every action, no matter how small it may seem, contributes to a larger wave of awareness and resistance.

The first step is talking about it. Start conversations. Share the truth with people around you, especially those who aren’t paying attention. Awareness spreads person by person.

If you can, boycott — economic pressure matters. Where you spend your money is a political act. And of course, sharing online is still powerful. It might feel like just a post or a story, but you never know who it will reach or how it might move someone to act.

We don’t all have to do everything. But if each of us does something, it adds up. That’s how change begins.
thank you so much for your time, and most of all thank you for your work, for your book and for all the emotions in it that you shared with us. from the river to the sea! 
 Thank you Claudia! For everything and for being a strong voice in this time of need.

gina nakhle koller's biography is taken from the eris edizioni website

Born in 1982 in Lebanon, is an Comic Artist whose work is deeply rooted in her Lebanese and Palestinian heritage. Growing up amidst the challenges of a turbulent region, Gina discovered art as a powerful tool for self-expression and storytelling, a means to connect with her identity and shed light on the untold stories of her people. Palestine remains a central theme in Gina’s work, fueling her passion to create art that captures the resilience, struggles, and humanity of its people. In 2013, she pursued a Master of Arts in Illustration in Switzerland where she lives now, deepening her commitment to storytelling through visual narratives. Gina’s art transcends borders, inviting audiences to see the world through the lens of empathy and to engage with the voices of those too often unheard.


martedì 5 agosto 2025

bianco è il colore del danno

nell'espressione: «malattia potenzialmente debilitante del cervello e del midollo spinale», la parola chiave è potenzialmente.
il peggioramento è potenziale, la stabilizzazione è potenziale. l'immobilità è potenziale, la cecità lo è.
dunque, dal primo giorno, ho stabilito che anche la paura sarebbe stata potenziale.

come faccio, io, a scrivere di un libro di francesca mannocchi?
è una cosa praticamente impossibile. o, quantomeno, estremamente difficile.
perché per mannocchi, io provo una stima e un'ammirazione che mi blocca e mi fa sentire troppo piccola, minuscola. e la sua scrittura fa sembrare le mie parole così grette e banali che non so come fare a tirarle fuori senza sentirmi ridicola.
mi sento in imbarazzo, insomma. è quell'imbarazzo che proviamo davanti a qualcunə che ci piace, quello che ci fa pensare "ho i vestiti a posto? mi sono pettinata bene? non è che mi è rimasto qualcosa tra i denti?". e io sono così: "ho i pensieri in ordine? ho pettinato bene tutte le parole che vorrei dire o mi è rimasto un po' di emozione tra i denti e poi quando sorrido faccio una figura da scema?"
quindi, ecco, scusate se magari ci sono delle cose sconclusionate.

io ci provo lo stesso perché il senso di questo blog è "vi parlo dei libri che mi sono piaciuti, magari li scoprite qui, li leggete e piacciono anche a voi", e questo mi è piaciuto tantissimo, mi ha fatta emozionare e mi ha regalato un sacco di idee e di pensieri, e vorrei farlo incontrare ad altre persone a cui potrebbe succedere la stessa cosa.

bianco è il colore del danno è un libro che parla dell'esperienza della malattia, di cosa succede quando il proprio corpo inizia a funzionare in modo diverso da come aveva fatto prima, e di come i pensieri iniziano a ingarbugliarsi e impigliarsi in domande e paure.
è un libro che racconta il corpo, le memorie che ha conservato, le eredità che ha raccolto e quelle che lascia. e, soprattutto, il rapporto che abbiamo con il corpo (almeno fino a quando continuiamo a vederci come qualcosa che ha un corpo ma che, in qualche modo, è separato da quel corpo).
per me, è stato un libro che mi ha fatto vedere un pezzetto di quel mondo interiore, fatto di ricordi ed emozioni, che pure se non è mio, ha risuonato col mio.
alcune frasi - pagine, capitoli interi - di questo libro hanno trovato eco in certe cose che stanno da qualche parte a metà strada tra la mia mente e la mia pancia (che cosa meravigliosa sono i libri capaci di farti sentire così, come un diapason che finalmente capta le note giuste e si mette a cantare!).

ho sempre pensato che le persone disabili e/o con malattie croniche abbiano una capacità di guardarsi dentro che lə altrə guadagnano - se va tutto bene - quando diventano vecchiə.
forse perché dobbiamo imparare a sentire di più quello che ci dice il nostro corpo, forse perché - non so quanto inconsciamente, forse nemmeno un po' ma mi piace pensare che non sia una cosa troppo voluta perché so che è facile giudicarla come una brutta abitudine - proviamo spesso a fare dei confronti con lə altrə, quellə che non sono (ancora) malatə o disabili.
quale che sia il motivo, impariamo a sentirci e pensarci più a fondo e più presto di quanto sarebbe solito fare. e, inevitabilmente, quando ti guardi dentro, fino in fondo, a un certo punto buchi i confini del tuo tempo e della tua carne e inizi a guardare tutte quelle persone che sono il tuo passato, il tuo presente, immagini quelle che potrebbero/avrebbero potuto essere il tuo futuro. la tua famiglia, insomma.

il racconto, infatti, segue una strada tortuosa: inizia da un corpo che si scopre malato, studiato e indagato da medicə e macchinari, danneggiato e "nemico"; torna indietro nel tempo e si proietta nelle ipotesi future, perché non esiste storia personale che non sia anche storia collettiva. mannocchi racconta la sua famiglia d'origine a partire dai ricordi - che sono cosa preziosa, soprattutto quando si intravede la possibilità di perderli - e dalle reazioni alla sua malattia, che mettono in luce quanto difficile sia trovare una lingua comune per parlare del dolore.
e racconta di suo figlio, la sua nascita come elemento (forse) scatenante della malattia, il continuo giudicare il suo modo di essere madre e, soprattutto, la paura di non poter crescere accanto a lui come vorrebbe.

francesca mannocchi scrive scegliendo con cura le parole, un'attenzione che tradisce un lungo ragionare su tutto quello che racconta ma che non edulcora né nasconde nulla. c'è rabbia ma è ormai un sentimento conosciuto e misurato che non riesce a travolgere né a stravolgere i pensieri.
non è facile parlare del proprio dolore. non per orgoglio o per paura, ma perché ci mancano gli strumenti. nessunə ci insegna a parlare del dolore e della vergogna che l'accompagna.
già solo sentire quella vergogna è indice del rapporto insano che abbiamo col dolore. per quanta rabbia mettiamo nella lotta contro il dolore, quello vince sempre. perché abbiamo imparato che bisogna stare bene, essere felici e sanə e fortunatə e bellə e giovani. tutto il resto è sbagliato e se ci trasformiamo in quelle cose lì, allora abbiamo perso. ma è davvero così?

se guardo alla mia esperienza, penso che aver vissuto momenti felici, o anche solo spensierati, mentre c'era il dolore e tutto quello che l'accompagna (tra le altre cose, la frustrazione di sapere che sarebbe durato ancora a lungo, forse per sempre) me l'ha fatto vivere in modo diverso. c'è e basta. non è giusto né sbagliato, non c'è un senso, non esiste risposta alla domanda "perché io?". non posso annullarlo, il dolore, posso solo ascoltarlo meno mentre vivo tutto il resto.
perché non ce lo insegna nessunə? ci vuole tempo a capirlo da solə e quel tempo è tempo che avremmo potuto vivere meglio.
certo, non tutte le malattie non hanno risposta alla domanda "perché io?".
se sei malatə perché vivi in un ambiente inquinato perché a qualcunə fa comodo per il suo conto in banca, se sei malatə perché hanno distrutto la tua città sotto le bombe, se sei malatə perché hanno privato del cibo tua mamma mentre era incinta, se sei malatə perché non hai potuto permetterti le cure che ti servivano, se sei malatə perché la tua malattia si poteva evitare ma nessunə l'ha evitata e, anzi, l'ha provocata, allora hai tutto il diritto di arrabbiarti.
non con la malattia né con il tuo corpo, ma con chi è davvero colpevole.

a un certo punto, ragionando su come la malattia ci faccia vedere e sentire, francesca mannocchi si chiede "il malato è cattivo?" e queste parole mi hanno fatto ricordare un episodio.
una persona che, per fortuna, non fa più parte della mia vita da un po', tra le tante cose dimenticabili che mi ha detto negli anni che l'ho frequentata, ha tirato fuori una frase orribile a proposito della diagnosi di una malattia che aveva ricevuto e che la faceva stare male. ha detto "tu non puoi capire come sto perché malata ci sei nata. non lo sai che vuol dire perdere quello che hai".
all'epoca avevo visto più di trentacinque inverni, incontrato un sacco di persone e ascoltato un mucchio di giudizi cattivi e inutili su di me (ma anche un sacco di cose belle, che erano quelle che mi importavano veramente e che mi importano ancora), ma non mi era mai successo di pensarmi come una che "malata ci è nata". è stata una scoperta, un modo di perdere quello che avevo fino a un momento prima, e cioè l'incapacità di darmi l'etichetta di "malata che ci è nata". cosa che rifiuto perché io malata non mi sento.
ovviamente, non ho idea di come sia fare il salto da "persona sana" a "persona malata irrimediabilmente" o a "persona che rischia di diventare disabile da un momento all'altro", però so che se la sofferenza fa diventare cattivə, allora si è sofferto a vuoto.

nessunə vorrebbe occupare il posto di chi sta male, ovvio. però chi sta male non vuole nemmeno essere visto solo come una vittima da compatire o qualcunə di cui pensare "al posto suo mi ammazzerei".
c'è chi lo pensa, certamente, e se quando si trova davvero in quella situazione sceglie di mollare tutto, ha pienamente diritto di non ricevere nemmeno un pensiero di biasimo.
ma dateci il beneficio del dubbio, almeno.
disabilità non vuol dire necessariamente "vita orribile che non vale la pena di essere vissuta", in molti casi non è così. non vuol dire essere solo vittime, non vuol dire essere sempre tristi, non vuol dire essere sempre arrabbiatə.
siamo creature complesse a prescindere da come è fatto il nostro corpo e da come funziona. non ci sono equazioni esatte.

per quello che arriva, da questo libro, io ho sentito che qualsiasi sofferenza abbia attraversato l'autrice, per quanto intraducibile sia, per quanto spaventata e arrabbiata con il destino che "ma perché proprio io?" (e chi non l'ha pensato almeno una volta, almeno miliardi di volte? ma la vita non è giusta né cattiva, è quella che è e basta, non conosce morale), non è stata una sofferenza vana.
e ho apprezzato tantissimo quando la malattia si fa meno problema personale e diventa istanza politica, e cioè quando mannocchi critica l'assurdità del nostro sistema sanitario, accessibile a tuttə sulla carta ma tremendamente classista nella realtà dei fatti.

la cosa più bella di questo libro è la sincerità, la totale mancanza di edulcorazione che c'è nel guardarsi dentro e nel guardare i fili che ci connettono allə altrə. a volte la sincerità si fa spietatezza ma mai crudeltà. ma la realtà è spietata, siamo noi a infiocchettarla per renderla adatta ai racconti in cui la stipiamo. francesca mannocchi non è una che indietreggia davanti alle cose spaventose, orribili, dolorose. non lo fa come giornalista, quando racconta la gente che vive nei territori devastati dalla guerra, e non lo fa come scrittrice, quando racconta la sua esistenza cambiata per sempre dalla malattia.

martedì 29 luglio 2025

l’occhio dell’airone

«come rifiuto la violenza, così rifiuto di servire i violenti»



l’occhio dell’airone sembra quasi un allenamento prima della stesura del ben più famoso - a ragione - i reietti dell’altro pianeta ma, in realtà, questo breve romanzo è stato pubblicato per la prima volta un paio d’anni dopo la storia di urras e anarres.

il tema di fondo, se pur non perfettamente uguale, è molto simile in entrambi i romanzi: lo scontro di due comunità guidate da principi diametralmente opposti.
questa volta, però, le due comunità si ritrovano sullo stesso mondo, victoria (nome che ha echi politicamente probabilmente non casuali), colonizzato in principio per diventare un pianeta-prigione dove i terrestri avrebbero potuto scaricare gli elementi più indesiderabili della società umana.

dopo questa prima ondata di coloni-prigionieri, su victoria arriva un altro gruppo formato da quellə che potremmo definire auto-esiliati politici o migrantə ideologicə, allontanatə dalla terra non per aver commesso un qualche tipo di crimine ma per il loro desiderio di fondare una comunità basata sulla non-violenza, sulla mancanza di gerarchie e sulla libertà di autodeterminazione.

nel corso dei secoli, le due comunità, anche se geograficamente prossime e in contatto tra loro, si sono sviluppate rimanendo ben separate e riconoscibili: la prima - che vive in quella che è semplicemente denominata “la città”, autoconferendosi così lo status di società progredita e organizzata, ha replicato le più stringenti strutture culturali di stampo patriarcale che ben conosciamo e l’altra, che invece si è organizzata nella cittadina rurale di shantih, ha continuato a portare avanti le idee della generazione pioniera, finendo ben presto per essere fortemente subordinata alla dominazione dei cittadini.

in questo scenario - popolato da una varietà di specie animali aliene che, pur diverse tra loro, condividono il rifiuto totale della domesticazione, e da boschi, foreste e montagne selvagge e ancora libere dalla catastrofe di stampo antropico - ursula k. le guin mette in piedi una tragedia annunciata già nella sua stessa premessa: quando lə abitantə di shantih decidono autonomamente di creare una nuova colonia indipendente per poter meglio provvedere all’autosostentamento di tutta la popolazione, la città prova a bloccare ogni tentativo di scelta e impone con la forza il proprio controllo.

persanaggia fondamentale è luz marina, figlia del consigliere falco - di fatto il capo della comunità cittadina - che non soltanto rinnega il suo ruolo di donna, confinata nell’ambiente domestico, soggetta al volere paterno e costantemente minacciata dal giudizio (e dalla violenza) maschile, ma che pure deciderà di mettere in discussione il suo ruolo di privilegiata, sfidando l’ordine costituito e schierandosi letteralmente dalla parte dei reietti.

come in tutti i romanzi che ho letto di le guin, l'autrice non propaganda mai le sue idee, anzi, le mette in discussione in modo intelligente, ne mostra le fragilità pur lasciando intendere chiaramente quali sono le bussole etiche e morali che guidano il suo pensiero.
le guin non dà mai risposte facili né soluzioni a poco prezzo, anzi, ma suggerisce sempre quali devono essere le domande giuste da porsi e quali gli strumenti per risolverle.

l’occhio dell’airone suona a volte quasi come un incompiuto e molto del racconto chiede approfondimenti e deviazioni dalla trama principale, eppure - se anche non si avvicina alla grandezza dei grandi capolavori dell’autrice - rimane un tassello interessante nel mosaico narrativo e ideologico di le guin, per cui mi auguro che possa tornare a breve nel catalogo di qualche editore.

mercoledì 23 luglio 2025

cloro

scordatevi quello che sapete sulle sirene. è da troppo che vi vengono propinate fiabe per bambini, ripulite dal sangue e dal fango delle loro versioni originali da uomini in completo e ventiquattrore. vi hanno venduto amori fasulli a tinte pastello. per merito loro e delle multinazionali disumane per cui lavorano, ora credete che le sirene indossino conchiglie a mo' di bikini, che nuotino in mare e che abbiano chiome rosse e fluenti. credete che vogliano accoppiarsi con marinai dotati di gambe, oppure attirarli verso morti acquatiche; è sempre un "oppure", mai un "e". pensate che le sirene odino i propri corpi e le proprie code, anche se è lì che risiede il loro potere. pensate che le sirene non abbiano potere.
vi sbagliate.

non c'è nulla di "buono" nelle sirene. nulla di carino né di fiabesco, anche se una versione edulcorata di queste creature popola libri illustrati per bambine (soprattutto, bambine). ren yu lo sa benissimo perché, pure se sembra una ragazza qualsiasi, anche lei è una sirena.
a risvegliare la sua natura non è il salmastro delle onde del mare ma l'odore chimico del cloro, il modo in cui impregna la pelle e resta lì, a ricordare tutte le aspettative che il mondo ha riversato dentro ren.

il suo corpo perfetto è ricettacolo di uno straordinario talento per il nuoto - d'altronde, in che altro dovrebbe eccellere una sirena? - che si palesa fin dal primo tuffo in piscina. il suo corpo, prima ancora del suo nome, tradisce la sua non-appartenenza a quell'america che non le perdona di essere cinese. il suo corpo è quello che jim, il coach di nuoto, guarda e tocca, pur sempre senza sforare nell'illegalità, ovvio, ed è quello strizzato dentro costumi striminziti che lasciano segni rossi sulle spalle, raschiato da un rasoio che le libera la pelle da ogni pelo, costretto ad allenamenti massacranti perché quello che conta è che quel corpo sia veloce, sempre più veloce.
il suo corpo è quello che prende a sanguinare ogni mese tra dolori lancinanti, è quello che deve trasformare tutto il cibo che jim le dice di ingurgitare in energia per vincere ogni gara. il suo corpo è quello che esige un pagamento in ibuprofene spesso, sempre più spesso, per lasciarla libera dal dolore e permetterle di nuotare.
il suo corpo può anche non essere suo quando qualcuno decide di farne ciò che vuole.
il suo corpo è quello che la rende debole, lenta e vulnerabile. umana.

femmina condannata a soffrire al ritmo del suo utero, figlia di una famiglia spezzata, straniera in terra straniera che nasconde canzoni cinesi nelle cuffie, la storia di ren è una storia di formazione crudele e incompiuta, frustrata da mille ferite. ren cresce e prova a trovare sé stessa in mezzo a tutto quello che non va, senza nessuno strumento per riuscire a tirarsi fuori da quel lento scivolare in una sofferenza che non sa riconoscersi e che si trasforma in rabbia, in un continuo tentativo di superare i propri limiti, di liberarsi di quell'assurda forma umana per trascendere come sirena.
libera, potente e feroce come adesso non le è dato di essere.

il senso della storia di ren è tutta in quelle due parole: femmina e trascendenza. il suo desiderio è il superamento di uno stato miserabile, l'abbandono di un peso, la fuga da una prigione che non è semplicemente la sua condizione di essere umano, ma quella di essere umano di sesso femminile in un mondo patriarcale, a cui si aggiunge il peso del suo valore in termini di successo e produttività inserito in uno schema in cui tutto - persone e talenti inclusi - sono capitalizzati e spremuti fino all'ultima goccia.

man mano che la sua storia va avanti la trama del reale si squarcia.
chiamatelo realismo magico, chiamatelo body horror, ma quello che succede è un progressivo dissociarsi di ren da sé stessa, mentre abbraccia l'idea di una trasformazione che rovescia la narrazione favolistica: se nei racconti della nostra infanzia la sirenetta sorrideva emozionata alle sue due gambe, ren è ossessionata dall'idea della sua carne che si fonde in un'unica potente coda, immagina la sua pelle seccata dal cloro rinforzarsi di squame, pregusta la sua fame di sesso trasformarsi nella capacità di mangiare letteralmente gli uomini.

e man mano che la sua storia va avanti, qualcosa inizia a minare le certezze dentro noi lettorə. dall'iniziale ammirazione - e forse un po' d'invidia? - per quella meravigliosa nuotatrice, per la sua forza e l'eleganza con cui il suo corpo si adatta all'acqua e l'attraversa con grazia, per il suo riuscire ad attirare sguardi ammirati e desiderosi, per la sua straordinaria forza d'animo, sprofondiamo presto in una spirale di disperazione furiosa e sofferenza e in un'angosciante tensione che sfocia nella follia e nella violenza autoinflitta.

jade song scrive ispirandosi ai suoi dodici anni trascorsi come nuotatrice agonistica e lascia parlare ren in prima persona, senza filtri, di un'adolescenza mostruosa costellata di razzismo, misoginia, autolesionismo, disturbi alimentari, omofobia, depressione e violenza sessuale.
il racconto di ren è interrotto dalle lettere che cathy le scrive da un futuro non sappiamo quanto lontano, frasi che alludono a qualcosa che non riusciamo a cogliere pienamente e che vanno ad acuire quel senso di inquietudine che ci prende così presto nella lettura.

cloro è il romanzo che mi ha fatta uscire da un blocco del lettorə che pensavo non sarebbe finito più, che mi ha scossa durante un momento di apatia e stanchezza insopportabile, e per questo lo ringrazio.
ma soprattutto lo ringrazio perché è un romanzo che mi ha fatta arrabbiare, e so che la rabbia è un sentimento fondamentale per scrollarsi di dosso tutto lo schifo sotto cui il mondo prova a seppellirci.
è un racconto denso, ogni scena è pregna di significati, quasi di simboli che raccontano una lenta, angosciante e inesorabile caduta. è un romanzo feroce con dei trigger warning enormi, che se pure non si perde in graficismi superflui sa come fare male.
eppure, è un dolore pieno di rabbia, di desiderio di evadere che si spinge oltre i confini del possibile, fino a una conclusione straniante e catartica.

lunedì 21 luglio 2025

animal pound

la fattoria degli animali era un'allegoria di come le utopie ideali del comunismo potessero degenerare nelle crudeli realtà del fascismo [...] ottant'anni dopo, la fattoria degli animali è un classico radicato nella coscienza del mondo occidentale. tuttavia, non è più l'avvertimento urgente e rilevante che era un tempo. perché la minaccia odierna del fascismo non deriva dalla perversione degli ideali della sinistra che guarda al futuro, ma dagli imbroglioni che distorcono gli ideali della destra che guarda al passato.


nella sua prefazione, tom king chiarisce immediatamente cos'è animal pound: una risposta a la fattoria degli animali, una sua versione aggiornata e contestualizzata nel presente, che guarda a questo presente prospettando un futuro - proprio come nel romanzo di orwell - che se è pure germinato dalle migliori intenzioni, si dirige verso l'abisso.

in un qualche rifugio per animali di città, una gattina e un vecchio cane fanno amicizia. per lucky, ormai anziano e inadottabile, sono le ultime ore. le loro vite, come le vite di tutti gli altri animali, dipendono esclusivamente dagli esseri umani per il cibo, un posto dove dormire, qualche coccola o, lì nel rifugio, per non finire nella stanza degli aghi. la vita degli animali, racconta lucky, è scandita dall'aprirsi e dal chiudersi delle porte, simbolo assoluto del potere degli esseri umani su di loro. una chiave che gira dentro una serratura traduce il destino di una giornata o quello di una vita intera.
lucky non distingue tra cani, gatti e conigli. per lui, ognunə di loro è soltanto una creatura privata della propria libertà, e in questo tuttə sono uguali.


è ricordando le parole di lucky che qualche anno dopo madame fifi, ormai una gatta adulta, e titan il nuovo cane che vive nella gabbia di lucky, decidono di scatenare la rivoluzione che fino ad allora era stata soltanto sognata.
ma, proprio come succede ne la fattoria degli animali, alla vittoria e a un primo periodo in cui viene instaurata una sorta di democrazia, la situazione inizia a precipitare velocemente all'interno del rifugio, trasformando quel sogno di libertà in un incubo in cui pian piano all'eguaglianza si sostituisce la sopraffazione, e la parità di diritti cede il passo alla legge del più forte.


l'ascesa di piggy - un bulldog il cui nome riporta immediatamente a orwell mentre l'aspetto e gli slogan parodiano fin troppo palesemente il presidente americano - la resa ideologica di titan e l'allontanarsi dalla politica di madame fifi, sopraffatta dal declino di quella società ideale che aveva aiutato a costruire, si fanno metafora del nostro presente.
proprio come è accaduto in america negli ultimi mesi - caso più eclatante e palese ma non troppo dissimile da quello che accade da noi - pervertire i concetti di libertà e indipendenza e demandare il proprio potere e le proprie responsabilità a chi si fa valere solo per la propria forza, trascina gli animali del rifugio in una spirale di orrore.

leggere animal pond è come rileggere la cronaca degli ultimi anni di buona parte dell'occidente: la perdita di senso della democrazia e l'ascesa di personaggə incompetenti, volgari e violentə nel plauso generale di chi, senza nemmeno dover aspettare troppo, ne diventerà vittima.
ma king non offre nessuna soluzione al disastro né alcuna consolazione che vada oltre la placida resa. potrebbe essere interpretato come un finale mancato, nel bene o nel male.
personalmente, credo che king voglia semplicemente suggerire che un sistema corrotto così fortemente e profondamente non si smantella dall'oggi al domani, né che può sperare nell'intervento di un qualche ero solitario: il cambiamento deve nascere collettivamente e dal basso e travolgere sistematicamente ogni cosa.


i disegni di peter gross e i colori di tamra bonvillain non cedono alla tentazione di antropomorfizzare gli animali, ma uno stile così realistico non fa che rendere la storia ancora più cruda e brutale, aiutandoci a vedere attraverso il racconto e a mettere a fuoco il nostro oggi, ricordandoci che basta davvero poco per ritrovarci in un futuro in cui non avremo più la possibilità di aprire da solə le nostre porte.

martedì 15 luglio 2025

quando il mondo dorme ~ storie, parole e ferite della palestina

per noi «occidentali», soprattutto per noi europei, questa è l'occasione per sciogliere i nodi del passato coloniale e cominciare a saldare il nostro debito. è tempo di schierarsi contro la devastazione di gaza e ciò che resta della palestina, e di lottare contro un sistema internazionale fondato sull'uso della forza in nome di una cosiddetta «pace», evocata sempre a vantaggio di pochi e sempre usando le parole per mistificare la realtà di ciò che viene commesso.

provo ad andare indietro con la memoria ma non riesco a ricordare quando è stata la prima volta che ho sentito parlare della questione palestinese. la madre di tutte le ingiustizie - come dicono alcunə - è una di quelle storie che mi appartengono da sempre e che hanno contribuito a formarmi come persona, a strutturare l'impalcatura etica e ideologica che sostiene tutto il resto di quello che posso riconoscere come me stessa. però negli ultimi mesi, quasi due anni ormai, inevitabilmente la mia attenzione - come quella di moltissmə altrə - sull'argomento è cresciuta esponenzialmente. ed è per questo crescere dell'interesse - e del dolore e della rabbia - che ho conosciuto francesca albanese.

relatrice speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato dal 2022, giurista e accademica, francesca albanese è soprattutto una delle voci più lucide e forti tra quelle che si stanno spendendo pubblicamente contro il genocidio dellə palestinesə messo in atto dallo stato di israele (che - serve ricordarlo, ancora una volta, perché moltə fanno finta che la storia del popolo palestinese sia iniziata poco meno di due anni fa - ora si trova nella sua fase più feroce, ma che è iniziato quasi ottant'anni fa).

i suoi post, i video delle sue interviste e dei suoi interventi in giro per il mondo (nonché quelli in cui le vengono rivolte accuse tanto ridicole da essere immeritevoli di una qualche menzione) girano da mesi sui social network, contribuendo a fare di questi strumenti qualcosa di finalmente utile e fondamentale: albanese è riuscita a spiegare a tuttə cosa sta realmente succedendo nella martoriata terra di palestina, e come tutto questo sia condizionato - e condiziona - gli equilibri politici ed economici mondiali.

oltre che alla sua competenza stratosferica in materia, tutto questo è dovuto alla profonda e sincera umanità che traspare ogni volta dalle sue parole e dalla capacità di arrivare al nocciolo delle cose, senza inutili giri di parole, riuscendo così a toccare il cuore - e la testa - di chiunque.

mentre iniziavo a scrivere questo post, è arrivata la notizia delle sanzioni che gli stati uniti anno imposto contro di lei, nel vergognoso silenzio della politica italiana, a cominciare dal presidente della repubblica, incapace di pronunciare due parole su una cittadina italiana che da anni viene minacciata di morte per l'incarico - non lavoro, non viene neppure pagata per questo - che ricopre per l'onu.
proprio come dice albanese, questa è l'ammissione di colpa con cui l'occidente tutto sta dimostrando, ancora una volta, di essersi affidato a leader totalmente indifferenti al rispetto delle norme internazionali e in materia di diritti umani, interessati solo al mantenimento del potere e degli equilibri economici che li supportano.
e anche per questo, ancora più di prima, a lei va tutto il nostro supporto.

per quello che vale, io provo a raccontarvi il suo libro e a invitarvi a leggerlo.

quando il mondo dorme, il libro che ha scritto per raccontare il genocidio palestinese, è esattamente quello che mi aspettavo che fosse: bellissimo, semplice, profondo e toccante. dieci domande, dieci incontri, dieci persone che si raccontano per mostrarci cos'è la palestina, cos'è stata negli ultimi decenni e cosa è diventata adesso. tra le tante frasi che ho sottolineato in questo libro, ce n'è una che forse da sola basta a spiegarne l'esistenza: davanti alla connivenza dei poteri occidentali con gli abusi e i crimini di israele, davanti alle mistificazioni dei media e alle indecenti bugie che provano a continuare a propinarci
dobbiamo rispondere con consapevolezza e azione. il sapere è un'arma fondamentale, perché la conoscenza rappresenta la migliore difesa contro la manipolazione, lo sfruttamento e l'inganno; e l'azione dovrebbe scaturirne in maniera naturale.
ecco perché dare voce a chi vive la palestina e il genocidio. per comprendere e, quindi, resistere e agire insieme contro lo sgretolarsi del diritto che dovrebbe andare oltre ogni legge nazionale e dovrebbe proteggere tuttə noi, non solo come nuda esistenza ma come individui e popoli. e se permettiamo questa volta di distruggere il popolo palestinese, stiamo permettendo di distruggere quello che resta a dirci esseri umani. e stiamo anche permettendo che questo possa succedere poi in qualsiasi momento a chiunque.

francesca albanese mischia i ricordi dei soggiorni e degli incontri in terra di palestina e altrove, avvenuti nel corso della sua lunga carriera all'onu, insieme a quello che in quei luoghi è accaduto dal 1948 a oggi. racconta cos'è l'infanzia in palestina, con un primo, devastante capitolo che mi ha costretta a mettere giù questo libro più e più volte, perché nonostante tutto quello che abbiamo visto negli ultimi mesi, a volte il dolore è davvero insopportabile.
la storia è quella di hind, la bambina massacrata dai soldati dell'iof da centinaia di proiettili mentre chiedeva aiuto per telefono, nascosta nella macchina dei suoi zii, accanto ai loro cadaveri. la sua voce è una delle poche che abbiamo sentito, pochi minuti prima di essere assassinata dai peggiori criminali di questo mondo. quelle che non abbiamo potuto ascoltare sono le centinaia di migliaia di voci dellə bambinə che israele ha ucciso, imprigionato, torturato, picchiato, bruciato, mutilato e reso orfanə negli ultimi due anni di genocidio e nei quasi ottant'anni di occupazione. l'infanzia in palestina è qualcosa che infanzia non è: è paura, è lutto ed è dolore. israele, tra i tanti crimini che costituiscono l'impalcatura di apartheid su cui la sua esistenza stessa si fonda, nega allə bambinə palestinesi la possibilità di crescere, di studiare, giocare, imparare, curarsi, sognare.

attraverso la storia di abu hassan, un uomo palestinese conosciuto alla sua prima visita in palestina, francesca albanese racconta come si vive sotto l'occupazione israeliana: negazione di ogni diritto, incarcerazioni arbitrarie e senza processo, torture. una totale e continua sottrazione della libertà e del futuro in un regime di colonizzazione totale e deumanizzante. tutto questo si fa chiaro proprio attraverso lo sguardo di abu hassan, che si improvvisa guida di quei territori e che racconta storie quotidiane che si intrecciano con la storia - quella della cronaca e dei libri - degli accordi di oslo e del ruolo imbarazzante dell'anp. insieme a lui ci sono george e ibrahim, che permettono ad albanese e a suo marito di vedere gerusalemme con occhi inediti. guide alternative alle guide israeliane che non riescono a lasciare fuori la loro ideologia colonizzatrice e le loro bugie neppure davanti allə turistə. la divisione di gerusalemme tra il 1947 e il 1948 è il processo che dà l'avvio alla nakba e alla subalternità politica, civile e culturale a cui da allora sono costrettə lə palestinesə.
«welcome to israel!».
«palestina occupata. è palestina occupata, questa parte qua» gli ho detto con un sorriso piccolo piccolo.
lui ha ribattuto piccato: «la palestina non esiste, questo è israele».
a quel punto ibrahim, che mi camminava accanto, gli ha chiesto animatamente: «e se la palestina non esiste, io cosa sono?»
«tu non esisti»
a tutto questo, si aggiunge una cancellazione dolorosa del passato: francesca albanese parla del diritto negato al ritorno dopo l'occupazione del 1948, della distruzione delle vecchie case e dei vecchi villaggi palestinesi, rimpiazzati da nuove costruzioni o - ed è forse peggio - ancora esistenti ma abitate dai nuovi coloni, autorizzati a rubare case, terreni e memorie dalle leggi israeliane. israele ruba tutto, persino il cibo, affibbiando l'etichetta di tradizione israeliana alle ricette locali, uno dei tanti modi di normalizzare l'oppressione e il desiderio di annientamento della popolazione palestinese.

il suo mandato, che è iniziato nel 2022 e - per nostra fortuna - è stato confermato fino al 2028, è stato costellato di critiche e persino minacce (e, l'ho detto ma è importante sottolinearlo ancora, anche in questi giorni, dopo gli ultimi gravissimi fatti che riguardano albanese, il governo e lo stato italiano non hanno speso mezza parola di solidarietà per lei, posizionandosi dove ci aspettavamo che volessero rimanere). le accuse ricevute sono quelle di antisemitismo, giustificate - come spiega nel libro quando racconta della sua amicizia con alon confino, professore italo-israeliano negli stati uniti - da definizioni di "antisemitismo" che esulano dal suo reale significato e la trasformano in uno scudo dietro cui nascondersi per non rispondere alle critiche verso lo stato di israele e il suo regime di apartheid. quello che stiamo vedendo e vivendo in questi mesi è chiaro: qualsiasi simbolo riconduca all'esistenza della palestina e all'identità palestinese viene immediatamente accusato di essere espressione della minaccia contro l'esistenza stessa di israele e punito in quanto tale. come dice albanese
siamo arrivati a un livello di oppressione e rifiuto della ragione senza precedenti.
se israele è inattaccabile pure nel suo mettere in atto un'occupazione e un'oppressione sistematica e totalizzante sulla popolazione palestinese, con il consenso e il sostegno attivo dell'occidente. quella palestinese diventa nella narrazione globale una crisi umanitaria, spiega albanese, e non una questione politica che dovrebbe essere discussa e risolta attraverso le norme del diritto internazionale.
persino il 7 ottobre è stato visto come un attacco antisemita e non come la reazione a decenni di oppressione inumana.

normalizzare uno stato di emergenza, sistematizzando la fornitura di aiuti umanitari per proteggere nulla di più che la mera esistenza biologica di un popolo privato di ogni diritto, è il primo e fondamentale step per far sì che nulla possa cambiare. e che il cambiamento non debba avvenire per puro interesse economico è ormai un dato di fatto, confermato proprio dall'ultimo rapporto di francesca albanese.

ci sono altre storie in questo libro, e continuano a raccontare la storia di palestina, l'apartheid messo in atto con la complicità dei governi più potenti del mondo e il modo in cui è stato combattuto dal basso, per esempio attraverso il movimento bds - boycott, divestment and sanctions - che si è ispirato alle battaglie contro il regime di apartheid in sudafrica, fondamentali per la sua caduta, e che colpisce proprio "al cuore" di questo sistema, cioè la sua economica che, per usare le parole di albanese, si è trasformata da economica di occupazione e economica del genocidio.

c'è poi l'aspetto più immediato e violento del genocidio, quello che stiamo letteralmente vedendo ogni giorno dagli schermi dei nostri cellulari e - molto più raramente, in strettissima dipendenza al coraggio di alcunə giornalistə che si sottraggono alla scorta mediatica che sostiene israele - in tv: il massacro mirato verso lə civili, la distruzione di ogni struttura sanitaria, l'uccisione dellə operatorə sanitari e dellə giornalistə, il blocco degli aiuti umanitari, eccetera. ogni azione di israele va nella direzione in cui non soltanto debbano esserci più vittime possibili nel minor tempo possibile, ma anche in quella in cui nessunə possa testimoniare quanto succede.

il libro continua raccontando di medicə, ricercatorə e artistə, ed è proprio verso la fine che albanese racconta la storia di malak, l'autrice del dipinto che è diventato poi la copertina di questo libro. francesca albanese racconta di averla incontrata per la prima volta quando era solo una bambina e di averla ritrovata poi per caso, proprio grazie alla sua arte, e rivista a distanza di anni, durante il genocisio. malak è una dellə tantə profughə palestinesə e la sua storia è quella di tuttə loro: costrettə a fuggire e, allo stesso tempo, a difendersi da una sfilza di accuse che tradiscono il sentimento islamofobo - questo sì, reale - che l'occidente ha smesso di nascondere dall'11 settembre.

la storia di malak e le sue parole, sono forse il punto più luminoso del libro, quello in cui l'autrice lascia esplodere la speranza che ha seminato in tutte le pagine precedenti.
racconta come, nonostante le infinite sofferenze che sono costrettə a subire, abbia sempre trovato nel popolo di palestina la voglia di resistere, lottare, sperare e portare avanti i proprio sogni.
l'arte di malak è insieme denuncia e speranza, e le sue parole sono forse tra le più forti e preziose di quelle raccolte in questo libro:
«[...]sai perché ci odiano e vogliono distruggere qualsiasi aspetto dell'arte? perché l'arte è speranza. ecco perché hanno ucciso refaat alareer, che con le sue poesie dava speranza a tanti. la realtà più sconvolgente con cui si deve scontrare l'occupazione è che noi parliamo con il linguaggio dell'arte, che è il linguaggio più potente contro tutte le forme di disumanizzazione: riuscire a raggiungere altre persone con una poesia o un dipinto è il modo migliore di spazzare via tutti gli stereotipi. per questo penso davvero che l'arte sia pericolosa.»
forse ho scritto troppo e non so ancora se sono riuscita a rendere giustizia a quello che, secondo me, è uno dei libri più importanti e necessari di questo tempo assurdo.
francesca albanese spiega e racconta con una chiarezza e una lucidità che non hanno nulla a che fare con la superficialità, ma che anzi sono il risultato di una consapevolezza estremamente profonda oltre che di una sensibilità e di una forza gigantesca.

leggete il suo libro se siete interessatə a capire cosa sta succedendo in palestina, ma leggetelo soprattutto se pensate che non vi riguarda. se anche dopo continuerete a girarvi dall'altra parte, allora vi toccherà interrogarvi sulla vostra stessa umanità.