lunedì 8 agosto 2022

noi siamo campo di battaglia

nessuno si accorgeva dei ragazzi.
così abbiamo cominciato a lavorare per costruire fratellanze clandestine nel caos. operavamo in una sinfonia difficile da spiegare, come pari. nessun capo. nessun padrone, nessun patriarcato. nessuna spiegazione di genere o di altro tipo. nessuna creazione e nessun riordino. caos fertile. non sempre i frutti arrivavano e non dappertutto la terra respirava come nel vivaio, ma noi creature compost ci siamo sempre state e non siamo mai diventate capi.

di nuovo nicoletta vallorani ci accompagna per le strade di una milano parallela, così distopica e allo stesso tempo così vicina alla nostra realtà da sembrare solo riflessa in uno specchio appena appena curvo, quel tanto che basta per deformare quello che conosciamo e trasformarlo in un incubo così realistico da farci dubitare che sia solo una finzione.
la città è preda di un'epidemia che va a ondate e che insieme alle vite dei malati si è portata via pezzi della nostra civiltà, o meglio, quei pezzi che ci piaceva dire che ci appartenevano e che probabilmente erano appiccicati al resto con troppa poca convinzione e facilmente sono volati via.
la società si è sgretolata partendo dalla sua unità minima, la più significativa: le famiglie si sono distrutte, gli adulti hanno iniziato ad abbandonare i figli, i ragazzi sono stati guardati con sospetto, allontanati, ignorati, zittiti, picchiati.
siamo stati educati a rispettare i legami di sangue e a considerarli primari. ora so che è solo un desiderio. questo essere famiglia in ragione del fatto biologico che ci ha consegnati al mondo è un mantra che alla fine non ha funzionato. ci siamo uccisi a vicenda, simbolicamente e nei fatti.
la città è in mano a un governo criminale e a santoni che hanno colpevolizzato la terra stessa per la malattia. il cemento soffoca semi e germogli tanto quanto i pestaggi della polizia provano a soffocare la voce dei ragazzi. la resistenza è letteralmente vita, quella dei giovani organizzati in comunità indipendenti che fanno famiglia, quella della città che non è più mura e mattoni ma corpi vivi e quella delle piante che nascono nel giardino del vivaio come un miracolo, sotto le mani della prof.

noi siamo campo di battaglia è un romanzo plurale e politico e le due cose non potrebbero essere l'una senza l'altra.
è un romanzo plurale fin dal titolo, fin dalla prima parte in cui la narrazione inizia a più voci, strumenti che cercano ciascuno il proprio suono e si accordano uno insieme all'altro fino a intonare la stessa melodia.
lukas, amina, luce, attilio, nina, han, biz e la prof, ognuno con la sua storia, il suo passato, ognuno ferito a modo suo, ognuno con le proprie cicatrici.
si risollevano prima di lasciarsi annichilire per costruire una nuova speranza e si ritrovano nel vivaio, il giardino della scuola dove piante e alberi sembrano imitare la loro tenacia, dove crescono alberi miracolosi, la terra nutre i frutti e le storie rendono forti le anime.
non più muto campo di battaglia in cui lasciarsi sopraffare dall'odio degli adulti, diventano giardino in cui lasciare germogliare il  futuro.
è un romanzo politico non solo perché racconta di una società malata e pervertita più dai cattivi governi che dai virus ma anche e soprattutto perché mette in scena la voglia di creare un'alternativa a un modo di vivere insostenibile. la terra che muore, il clima imprevedibile, le stagioni impazzite, i ragazzi capro espiatorio di tutto, i vecchi attaccati al loro potere, incapaci di cedere il passo alle nuove generazioni: non c'è bisogno di inventare una realtà parallela per immaginarlo, basta guardare il qui e adesso. i ragazzi di noi siamo campo di battaglia - le creature compost, quelle che fertilizzano il futuro - sono la sola speranza di non sprofondare in un baratro che sembra sempre di più inevitabile, una speranza che può essere solo se coniugata al plurale.
noi città siamo creature fatte di spazi aperti e chiusi, di mattoni e di strade.
non ci arrendiamo: è impossibile distruggerci, perché non siamo uno solo ma tanti.
io non esiste.
solo noi.
io è destinato a essere sconfitto.
il mondo che creano, sperano, immaginano, lottano per avere, il mondo che portano sul palmo della mano è un mondo diverso, mondato da sopraffazione ed egoismo, un mondo plurale di voci accordate sulla stessa melodia, di famiglie generate non dal sangue ma dalla scelta. è una rivoluzione fatta di mani che si intrecciano, una rivoluzione generata da un noi che fa risplendere ogni io, che nell'unione amplifica l'unicità senza mai cedere all'egoismo.

ed è una rivoluzione che non può essere accettata.
improvvisamente, il tono del racconto cambia, dalla fantascienza si passa al thriller, alle vittime e alle indagini per scovare i colpevoli, al disvelamento per noi lettori dell'orrore che si cela dietro ai volti rassicuranti di chi vuole far credere di poter gestire e risolvere tutto da solo, di essere capace di guidare - solo - tutti gli altri.

noi siamo campo di battaglia è un romanzo che più volte disorienta il lettore perché nicoletta vallorani lo conosce bene, sa cosa si aspetta, sa cosa ha letto e cosa vorrebbe leggere, sembra per un attimo accontentarlo e poi lo stupisce, lo disturba, lo commuove, ma soprattutto gli dà speranza.
noi siamo campo di battaglia è uno dei libri più belli, dolorosi e ricchi di luce che mi è capitato di leggere negli ultimi tempi, una storia che sembra raccontata da un coro di voci in cerchio, una storia che si alimenta di molti narratori e dei suoi lettori, un libro capace di sovvertire le regole stesse del gioco della lettura: non più un io che scrive e un io che legge, ma un noi unito dalle parole di un racconto, la magia più grande che una storia possa compiere.

sabato 30 luglio 2022

dimora di ruggine

un gatto aveva parlato e cantato, un cacciatore di squali l'aveva lasciata passare e il cadavere di un leviatano era sorto dalle acque.


khadija abdalla bajaber dice che le storie devono essere fantastiche, devono saper raccontare la realtà attraverso l'immaginazione. siamo così abituati al nostro realismo da aver confinato il fantastico alla letteratura di genere e a quella per ragazzi, come se fosse una letteratura di serie b, qualcosa da non prendere troppo sul serio. e siamo abituati a leggere i libri scritti nel nostro pezzetto di mondo, sicuri che la nostra letteratura - come qualsiasi altra espressione della nostra cultura - sia la migliore possibile, così tanto che spesso neppure pensiamo a quante sorprese meravigliose possono arrivarci da altri angoli di mondo.

la letteratura è uno dei prossimi territori da decolonizzare e libri come dimora di ruggine mi sembrano un ottimo modo per iniziare a farlo, soprattutto se evitiamo di piegarli all'interpretazione eurocentrica di cui sembra non riusciamo a liberarci e proviamo invece ad ascoltare le vere intenzioni di chi scrive, anche - e soprattutto - quando sono diverse da quelle che abbiamo intuito.

dimora di ruggine è un epos del fantastico che racconta, tra mostri marini e nonne apprensive, l'età difficile e però fondamentale in cui da bambini ci si trasforma in adulti, di come si debba riuscire a trovare un equilibrio tra il sé e la società cui si appartiene, con le sue regole, i suoi tabù e le sue aspettative.

la storia di aisha, che prende il mare in compagnia di un gatto erudito su una barca magica fatta di ossa per salvare suo padre, è una storia di fantasia e meraviglia, in cui gli animali parlano e gli esseri umani dividono la loro esistenza con creature nate dai sogni e dalle paure. è una storia che sembra di sentire narrare attorno a un fuoco sotto a un cielo pieno di stelle, ci regala nostalgia per quello che non abbiamo mai conosciuto ma che sappiamo - come una memoria atavica da insetti - essere il modo migliore di fare nascere le storie, intrecciando voci e fantasie diverse, raccontandole e ascoltandole insieme.

post pubblicato in origine su instagram.

mercoledì 20 luglio 2022

selvaggia

voglio per lei un nome forte e audace. voglio che da grande sia una donna coraggiosa, capace e libera.


so cosa state pensando: ecco un'altra storia in cui la principessa scardina le regole sociali, si comporta da maschiaccio, rifiuta di sposarsi e vive passando le sue giornate cavalcando nei boschi fiera della sua solitudine. ammetto che l'avevo pensato anche io. e invece.
selvaggia è una favola moderna che fa quello che facevano le favole più antiche: ci insegna il valore dei nostri desideri e l'importanza di saper porre rimedio ai nostri errori.
e ci riesce meravigliosamente!

siamo nel regno di valdirosa ed è grande festa il giorno che il re e la regina annunciano la nascita della loro erede: una bella bambina, bionda come il sole, a cui viene posto il nome di selvaggia, un nome che è un augurio, quello di poter vivere appieno la sua vita, di essere forte, determinata, coraggiosa, indipendente proprio come un animale dei boschi, una creatura che non ha bisogno di essere accudita dall'uomo per sopravvivere.
e già dalla sua infanzia, selvaggia si dimostra all'altezza del suo nome e delle aspettative di sua madre: è una bimbetta scalmanata che ama correre, giocare all'aria aperta e sporcarsi i vestiti, con buona pace delle cameriere del palazzo costrette a rimediare ai suoi guai.
crescendo le cose non cambiano: selvaggia non solo non rinuncia al suo arco e alle sue gite in solitaria per i boschi, ma non ha alcuna intenzione di assumere il ruolo della timida principessina devota che mantiene lo sguardo pudicamente basso e si esprime sottovoce con garbo ed eleganza.
il giorno in cui sua madre le annuncia che dovrà sposarsi siamo tutti sicuri, insieme alla regina, che selvaggia rifiuterà categoricamente, pesterà i piedi, minaccerà di fuggire, urlerà tutto il suo disprezzo per questa imposizione e invece...


è qui che le nostre certezze di lettori si sgretolano, è qui che rosalia radosti - con uno stile grafico davvero unico, elegantissimo, personale e luminoso da cui è impossibile non lasciarsi conquistare - ci porta a riflettere su tutti i cliché di cui negli ultimi anni abbiamo abusato per non affrontare davvero tutto quello che di tossico e sbagliato sappiamo sull'amore - e che per buona parte abbiamo imparato proprio dalle favole della nostra infanzia.

selvaggia è una ragazza libera, intraprendente, attiva, determinata, coraggiosa, polemica, sensibile, intelligente e sogna l'amore. una cosa non esclude l'altra.
vuole continuare a vivere la sua vita ma con qualcuno accanto a lei, qualcuno che la ami e che condivida le sue passioni. selvaggia sogna il suo principe azzurro, come lo sogna ogni altra principessa delle favole.

all'annuncio che la principessa cerca marito, valdirosa comincia a riempirsi di pretendenti dei regni vicini, una processione infinita di duchi, marchesi, baroni e principi che si propongono a selvaggia e che vengono inevitabilmente scartati, incapaci di accettare una moglie che non sia una silenziosa, accondiscendente e obbediente compagna dedita al ricamo e a sfornare pargoli.
mentre le cameriere la additano come una capricciosa, selvaggia comincia a perdere le speranze che possa davvero incontrare qualcuno da amare e che la ami per quella che è, quando finalmente incontra nel bosco un ragazzo così perfetto da sembrare un sogno...


ma sogni e realtà non sempre si sovrappongono alla perfezione: selvaggia dovrà imparare che quel e vissero per sempre felici e contenti che segue ogni matrimonio nelle favole esiste solo nelle favole e che il più bel giorno della vita non è che l'inizio di una vita completamente nuova, di cui spesso non conosciamo altro che le pie illusioni che abbiamo coltivato negli anni ingenui della nostra giovinezza.

rosalia radosti riprendere personaggi e struttura delle favole, cliché vecchi e nuovi, mischia tutto quanto e ci regala una storia crudele, di disperazione, di lacrime e sangue, una storia che però sa mettere insieme tutto quello che nelle favole non trova posto, sa raccontarci del nostro bisogno di essere amati e di quanto sia facile lasciarsi ingannare quando non vogliamo guardare oltre la facciata delle cose, sa parlare della tossicità di certe relazioni e della sofferenza in cui ci lasciamo trascinare quando il desiderio di essere felici oscura tutto il resto.

credo che selvaggia sia la prima storia che leggo che sappia parlare tanto bene di quanto sia difficile l'amore: lo rincorriamo, lo desideriamo per tutta la vita e spesso non sappiamo quanto possa farci male, non siamo in grado neppure di immaginare che ci siano persone che nascondo un altro sé oltre quello che conosciamo e quando lo scopriamo non siamo in grado di gestire la parte di noi che è ancora legata.
selvaggia mette in scena la migliore metafora dell'amore tossico, quello che ci regala per un attimo l'illusione della felicità e poi distrugge tutto quello che abbiamo di caro, ci isola, ci rende soli, deboli e disperati.


più che le favole in cui le eroine rifiutano categoricamente ogni relazione, rinchiudendosi in una fortezza di solitudine ed egocentrismo (sì, sto parlando proprio di meridia), la storia di selvaggia sa raccontare con sincerità quanto sia complesso il rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri: selvaggia non vuole perdere la sua identità, non vuole cancellarsi ma non per questo vuole rimanere sola, per lei l'amore è - e dovrebbe infatti esserlo - una condivisione continua di interessi, passioni, pensieri e idee in cui due persone sono felici insieme senza smettere di essere se stesse, senza annullarsi in una non meglio identificata entità duale che chiamiamo coppia.
ma desiderare non basta, nemmeno nelle favole.
per quanto alte siano le nostre aspirazioni, per quanta attenzione poniamo nello scegliere il nostro compagno - o la nostra compagna - possiamo comunque affidarci alla persona sbagliata.

raba, la strega gentile che selvaggia incontra alla fine della storia, è lo specchio della nostra consapevolezza. il punto non è non sbagliare mai, il punto è comprendere i nostri errori e sapervi porre rimedio, anche a costo di soffrire e, soprattutto, trovare la forza di superare quella sofferenza e andare avanti, senza renderci aridi come statue di pietra.

lunedì 11 luglio 2022

1984

la psicopolizia mi troverà. verranno a prendermi di notte e sparirò come tanti altri. sarò cancellato, vaporizzato... la mia stessa esistenza verrà negata. mi fucileranno.
fa lo stesso.
abbasso il grande fratello.


mettersi alla prova con un capolavoro come 1984 di george orwell non è certo un'impresa facile, eppure jean-christophe derrien e rémi torregrossa sono riusciti perfettamente nell'intento.

1984 - il cui titolo provvisorio fu l'ultimo uomo in europa, espressione poi ripresa in uno dei passaggi più salienti della narrazione - è uno dei romanzi distopici più conosciuti e citati al mondo, ma se qualcuno dovesse ancora essere convinto che il grande fratello sia solo un programma di pessimo gusto, ecco la trama a grandi linee:
winston smith vive a londra e lavora per il partito nel dipartimento archivi del ministero della verità. il suo compito è cancellare e alterare qualsiasi documento del passato per far sì che corrisponda al presente. è il 1984 - forse - quando winston inizia a tenere un diario in cui appunta i suoi pensieri e in cui sfoga il suo odio per il grande fratello, il cui sguardo onnipresente e onnisciente controlla e conosce tutto.


il mondo di winston ha conosciuto la guerra nucleare ed è adesso diviso in tre giganteschi superstati: oceania, eurasia e estasia. il governo del suo paese, l'oceania, è controllato dal grande fratello, entità quasi mitologica che governa ogni cosa: ogni azione, ogni pensiero, ogni ricordo, persino ogni sentimento. i tre superstati sono perennemente in guerra - la propaganda a volte sostiene che l'oceania è sempre stata alleata dell'eurasia e in guerra con l'estasia, a volte il contrario - e questo richiede ovviamente sacrifici alla popolazione che non è semplicemente costretta a una vita di stenti e privazioni, ma deve anche attenersi a una precisa ortodossia che prevede un totale asservimento al partito nelle azioni come nei pensieri: basta pochissimo a tradirsi, una strana espressione del volto, una parola sbagliata pronunciata nel sonno o detta con leggerezza mentre si parla con qualcuno possono essere indice di uno psicoreato (un crimine commesso con il pensiero, non con le parole o con le azioni, e quindi incontrollabile molto spesso da chi lo compie ma mai dal grande fratello), punibile con la morte.
consapevole che la sua esistenza è appesa a un filo sottilissimo e che il solo mettere silenziosamente in dubbio quando proclamato dalla propaganda ufficiale lo porterà presto alla morte, winston abbandona pian piano tutte le precauzioni che metteva in atto per cercare di passare inosservato, preso dall'urgenza - e dalla consapevolezza che questo sia possibile - di trovare una via di fuga da questa esistenza inumana.
affascinato da una giovane donna della lega antisesso (ovviamente, amore e attrazione sono proibiti da grande fratello, è accettato solo il matrimonio solo a fini procreativi finché la scienza non troverà modi alternativi per generare nuove vite) per la quale prova all'inizio sentimenti contrastanti, e convinto che uno dei suoi superiori faccia in realtà parte di una confraternita che mira a rovesciare il potere, winston vive un breve periodo in cui rinnega il grande fratello e tutto ciò che il governo gli impone.
pensa liberamente, ama liberamente, vive liberamente.
almeno, fin quando il partito gli consentirà di farlo.


l'opera di derrien e torregrossa è molto fedele e rispettosa dell'originale, la trama è sì snellita ma non è stato eliminato nulla di fondamentale e in generale un po' dell'atmosfera si perde più che altro per la velocità di lettura consentita dal mezzo fumetto, decisamente maggiore di quella che permette il romanzo.
lo stile dei disegni, realistico e attento ai dettagli, è perfetto per rendere al meglio il contesto in cui si svolge la vicenda: le tavole in bianco e nero ricordano le atmosfere cupe e desaturate del film nineteen eighty-four (in italiano orwell 1984) di michael radford (anche questo, ottimo adattamento del romanzo, vi consiglio di recuperarlo) e aiutano a rendere quel senso di disperata oppressione in cui nulla è lasciato libero di esistere al di fuori della volontà del grande fratello e del partito.

una scena del film nineteen eighty-four

tra le pagine si affastellano i corpi dei membri del partito, corpi controllati e ammaestrati a eseguire nulla di più che i compiti che il partito chiede loro, incasellati in uffici piccoli come cubicoli e incastrati uno accanto all'altro come celle di un alveare o nei lunghi tavoli delle mense, tutti con gli stessi vestiti, con la stessa folle devozione al grande fratello negli occhi, tutti circospetti e pronti a denunciare chiunque al minimo segno di allontanamento dall'ortodossia.
fuori, ai margini della società e della concezione stessa di essere umani, i prolet vivono nella miseria più totale, abbrutiti dalle malattia e dalla povertà, tenuti buoni da intrattenimento di infima categoria e considerati poco più che bestie. sono loro, dice winston, gli unici che potrebbero unirsi e rovesciare questo governo assurdo, ma sono privi della capacità di pensare, di organizzarsi, di reagire. semplicemente, sopravvivono.


l'unica fuga possibile da tutto questo squallore angosciante è julia: dietro il suo aspetto di fedelissima del partito e membro della lega antisesso - motivo per cui winston inizialmente la odia - julia è una ribelle che si è riappropriata del suo corpo e della libertà di usarlo per amare chi vuole, contro le severe regole di castità volute dal partito.
seduce winston con un bigliettino e una fuga tra le campagne fuori dal centro abitato, un angolo di sterpaglie senza controlli dove la monocromia lascia spazio ai primi tenui, timidi colori.
insieme a lei, winston riscopre la sua parte più umana: pensa, ama, sceglie. si riappropria dello spazio che il regime del grande fratello ha tolto a lui e a ogni altro essere umano, ma commette l'enorme errore di credere di poter sfuggire al controllo e al giudizio del partito: nulla è davvero esente dallo sguardo del grande fratello che costantemente guarda e ascolta e sembra quasi poter leggere i pensieri di chiunque.

(si tratta di una storia pubblicata nel 1948, quindi non so quanto possa essere sensato questo alert, ma comunque: spoiler sul finale)
proprio quando lui e julia sono certi di poter prendere parte alla rivoluzione, ecco che gli artigli del partito si chiudono su di loro, separandoli e portandoli nel ministero dell'amore, luogo di torture e condizionamento mentale da cui winston uscirà - dopo aver tradito julia e aver scoperto che non esiste alcuna ribellione, i nemici del partito e la loro propaganda, tutto è opera del partito stesso - annientato nel corpo e nello spirito e finalmente capace di amare totalmente il grande fratello.
il finale del fumetto è più fedele a quello del libro di quanto non lo sia quello del film: come nel romanzo, il sorriso di sincera felicità di winston è la campana a lutto che segna la morte dell'ultimo uomo d'europa.

1984 è quindi un'ottima trasposizione dell'opera originale (che resta comunque un capolavoro irraggiungibile e di cui il fumetto restituisce solo in parte il senso di ansia e oppressione) consigliatissima sia ai fan del romanzo di orwell sia a chi non l'ha mai letto e vuole averne un assaggio. 

lunedì 6 giugno 2022

le buone maniere

per quanto tempo... per quanti anni si può vivere nel terrore?
l'indifferente! l'indifferente ti chiederà di quale terrore stai parlando. il codardo non ascolterà la tua domanda, ti risponderà parlando delle previsioni meteo. il padrone ti dirà che non hai niente da temere, fino a quando avrà lui, in un cassetto, le chiavi delle tue catene. catene che usa per il tuo bene... per proteggerti a suo dire. per anni! fino a quando, ormai logoro, ti sarai dimenticato sia delle catene sia della chiave.

una nave che sta per schiantarsi contro un muro (sì, esatto, un muro) e una festa di pensionamento in cui l'atmosfera di forzata allegria non riesce a nascondere la qualità malsana dei rapporti tra i partecipanti.
ecco il biglietto da visita di le buone maniere, il nuovo libro (ancora una volta edito da bao publishing) in cui daniel cuello continua a raccontare quel mondo cupo e cinico con poche, sparute, scintille di speranza qua e là che avevamo già esplorato in residenza arcadia e mercedes.

teo è appena diventato il principale dell'ufficio 84 che è il palcoscenico in cui si svolge buona parte del racconto, un ufficio senza nome, solo un numeretto, in cui una ricca selezione di infelici revisiona, taglia, corregge e censura pubblicazioni di ogni tipo: nell'ufficio entrano romanzi, poesie, canzoni, persino libri di preghiere ed escono testi conformi all'ideologia del partito. non c'è nessuna specificazione circa questo onnipresente, tentacolare partito: è il partito, fuori di questo non esiste nulla, nessuna opposizione, nessun altro partito, nessun'altra idea, niente.
senza perdersi in spiegoni di sorta, cuello ci regala il ritratto di un'umanità gretta, troppo impegnata a preoccuparsi dell'ortodossia di ogni suo più piccolo gesto e pensiero per riuscire a dare più che un'occhiata di sfuggita all'altro, anche quando questo altro è il proprio vicino di scrivania, un'umanità solitaria e terrorizzata dalla vita stessa su cui grava costantemente il peso del giudizio e della punizione, incapace di empatizzare e schiava della burocrazia. un'umanità che non sa nemmeno rendersi conto di come la realtà, pezzo per pezzo, viene risucchiata nel buco nero della censura e dell'oblio.

fuori dall'ufficio, lontano da qualche parte, c'è una quale informe e inconoscibile opposizione, una libertà pericolosa e rischiosa, irraggiungibile se non a costo di perdere la tranquilla, solida, confortevole schiavitù quotidiana in cui teo e gli altri vivono.
a metà strada tra qui-al-sicuro e là-qualsiasi-cosa-sia, c'è zia nora, un'agguerrita vecchina che tenta disperatamente di aprire gli occhi del nipote teo, di risvegliare la sua coscienza che lui tiene a bada con sonniferi e tranquillanti, incapace di accettare almeno qualche ora di sonno che lo sottragga dai rimpianti e dai traumi di una vita.


cuello non racconta tutto, non spiega ogni stranezza del mondo in cui ci lascia emergere, piuttosto evoca, attraverso delle distorsioni disturbanti la realtà che ci aspetta se solo lasciamo che ce la spingano sotto le scarpe mentre facciamo finta di non vedere.
ricollegandosi alle due opere precedenti (più residenza arcadia, ma i fan di mercedes potranno godersi una specie di piccolo cameo) cuello tenta ancora una volta di mostrarci le aberrazioni della nostra società, le meschinità che oliano quel bel congegno che chiamiamo civiltà evoluta.

ci vuole un coraggio enorme per mettere da parte le buone maniere, iniziare a mettere in dubbio quello in cui abbiamo sempre creduto e pensare finalmente con la nostra testa, arrivando finalmente a comprendere la differenza tra quello-che-è-sempre-stato-e-sempre-sarà e quello che è giusto, perché il futuro possa essere finalmente, a qualsiasi costo, qualcosa di inaspettato ma sicuramente migliore.