nell'espressione: «malattia potenzialmente debilitante del cervello e del midollo spinale», la parola chiave è potenzialmente.il peggioramento è potenziale, la stabilizzazione è potenziale. l'immobilità è potenziale, la cecità lo è.dunque, dal primo giorno, ho stabilito che anche la paura sarebbe stata potenziale.
come faccio, io, a scrivere di un libro di francesca mannocchi?
è una cosa praticamente impossibile. o, quantomeno, estremamente difficile.
perché per mannocchi, io provo una stima e un'ammirazione che mi blocca e mi fa sentire troppo piccola, minuscola. e la sua scrittura fa sembrare le mie parole così grette e banali che non so come fare a tirarle fuori senza sentirmi ridicola.
mi sento in imbarazzo, insomma. è quell'imbarazzo che proviamo davanti a qualcunə che ci piace, quello che ci fa pensare "ho i vestiti a posto? mi sono pettinata bene? non è che mi è rimasto qualcosa tra i denti?". e io sono così: "ho i pensieri in ordine? ho pettinato bene tutte le parole che vorrei dire o mi è rimasto un po' di emozione tra i denti e poi quando sorrido faccio una figura da scema?"
quindi, ecco, scusate se magari ci sono delle cose sconclusionate.
io ci provo lo stesso perché il senso di questo blog è "vi parlo dei libri che mi sono piaciuti, magari li scoprite qui, li leggete e piacciono anche a voi", e questo mi è piaciuto tantissimo, mi ha fatta emozionare e mi ha regalato un sacco di idee e di pensieri, e vorrei farlo incontrare ad altre persone a cui potrebbe succedere la stessa cosa.
bianco è il colore del danno è un libro che parla dell'esperienza della malattia, di cosa succede quando il proprio corpo inizia a funzionare in modo diverso da come aveva fatto prima, e di come i pensieri iniziano a ingarbugliarsi e impigliarsi in domande e paure.
è un libro che racconta il corpo, le memorie che ha conservato, le eredità che ha raccolto e quelle che lascia. e, soprattutto, il rapporto che abbiamo con il corpo (almeno fino a quando continuiamo a vederci come qualcosa che ha un corpo ma che, in qualche modo, è separato da quel corpo).
per me, è stato un libro che mi ha fatto vedere un pezzetto di quel mondo interiore, fatto di ricordi ed emozioni, che pure se non è mio, ha risuonato col mio.
alcune frasi - pagine, capitoli interi - di questo libro hanno trovato eco in certe cose che stanno da qualche parte a metà strada tra la mia mente e la mia pancia (che cosa meravigliosa sono i libri capaci di farti sentire così, come un diapason che finalmente capta le note giuste e si mette a cantare!).
ho sempre pensato che le persone disabili e/o con malattie croniche abbiano una capacità di guardarsi dentro che lə altrə guadagnano - se va tutto bene - quando diventano vecchiə.
forse perché dobbiamo imparare a sentire di più quello che ci dice il nostro corpo, forse perché - non so quanto inconsciamente, forse nemmeno un po' ma mi piace pensare che non sia una cosa troppo voluta perché so che è facile giudicarla come una brutta abitudine - proviamo spesso a fare dei confronti con lə altrə, quellə che non sono (ancora) malatə o disabili.
quale che sia il motivo, impariamo a sentirci e pensarci più a fondo e più presto di quanto sarebbe solito fare. e, inevitabilmente, quando ti guardi dentro, fino in fondo, a un certo punto buchi i confini del tuo tempo e della tua carne e inizi a guardare tutte quelle persone che sono il tuo passato, il tuo presente, immagini quelle che potrebbero/avrebbero potuto essere il tuo futuro. la tua famiglia, insomma.
il racconto, infatti, segue una strada tortuosa: inizia da un corpo che si scopre malato, studiato e indagato da medicə e macchinari, danneggiato e "nemico"; torna indietro nel tempo e si proietta nelle ipotesi future, perché non esiste storia personale che non sia anche storia collettiva. mannocchi racconta la sua famiglia d'origine a partire dai ricordi - che sono cosa preziosa, soprattutto quando si intravede la possibilità di perderli - e dalle reazioni alla sua malattia, che mettono in luce quanto difficile sia trovare una lingua comune per parlare del dolore.
e racconta di suo figlio, la sua nascita come elemento (forse) scatenante della malattia, il continuo giudicare il suo modo di essere madre e, soprattutto, la paura di non poter crescere accanto a lui come vorrebbe.
francesca mannocchi scrive scegliendo con cura le parole, un'attenzione che tradisce un lungo ragionare su tutto quello che racconta ma che non edulcora né nasconde nulla. c'è rabbia ma è ormai un sentimento conosciuto e misurato che non riesce a travolgere né a stravolgere i pensieri.
non è facile parlare del proprio dolore. non per orgoglio o per paura, ma perché ci mancano gli strumenti. nessunə ci insegna a parlare del dolore e della vergogna che l'accompagna.
già solo sentire quella vergogna è indice del rapporto insano che abbiamo col dolore. per quanta rabbia mettiamo nella lotta contro il dolore, quello vince sempre. perché abbiamo imparato che bisogna stare bene, essere felici e sanə e fortunatə e bellə e giovani. tutto il resto è sbagliato e se ci trasformiamo in quelle cose lì, allora abbiamo perso. ma è davvero così?
se guardo alla mia esperienza, penso che aver vissuto momenti felici, o anche solo spensierati, mentre c'era il dolore e tutto quello che l'accompagna (tra le altre cose, la frustrazione di sapere che sarebbe durato ancora a lungo, forse per sempre) me l'ha fatto vivere in modo diverso. c'è e basta. non è giusto né sbagliato, non c'è un senso, non esiste risposta alla domanda "perché io?". non posso annullarlo, il dolore, posso solo ascoltarlo meno mentre vivo tutto il resto.
perché non ce lo insegna nessunə? ci vuole tempo a capirlo da solə e quel tempo è tempo che avremmo potuto vivere meglio.
certo, non tutte le malattie non hanno risposta alla domanda "perché io?".
se sei malatə perché vivi in un ambiente inquinato perché a qualcunə fa comodo per il suo conto in banca, se sei malatə perché hanno distrutto la tua città sotto le bombe, se sei malatə perché hanno privato del cibo tua mamma mentre era incinta, se sei malatə perché non hai potuto permetterti le cure che ti servivano, se sei malatə perché la tua malattia si poteva evitare ma nessunə l'ha evitata e, anzi, l'ha provocata, allora hai tutto il diritto di arrabbiarti.
non con la malattia né con il tuo corpo, ma con chi è davvero colpevole.
a un certo punto, ragionando su come la malattia ci faccia vedere e sentire, francesca mannocchi si chiede "il malato è cattivo?" e queste parole mi hanno fatto ricordare un episodio.
una persona che, per fortuna, non fa più parte della mia vita da un po', tra le tante cose dimenticabili che mi ha detto negli anni che l'ho frequentata, ha tirato fuori una frase orribile a proposito della diagnosi di una malattia che aveva ricevuto e che la faceva stare male. ha detto "tu non puoi capire come sto perché malata ci sei nata. non lo sai che vuol dire perdere quello che hai".
all'epoca avevo visto più di trentacinque inverni, incontrato un sacco di persone e ascoltato un mucchio di giudizi cattivi e inutili su di me (ma anche un sacco di cose belle, che erano quelle che mi importavano veramente e che mi importano ancora), ma non mi era mai successo di pensarmi come una che "malata ci è nata". è stata una scoperta, un modo di perdere quello che avevo fino a un momento prima, e cioè l'incapacità di darmi l'etichetta di "malata che ci è nata". cosa che rifiuto perché io malata non mi sento.
ovviamente, non ho idea di come sia fare il salto da "persona sana" a "persona malata irrimediabilmente" o a "persona che rischia di diventare disabile da un momento all'altro", però so che se la sofferenza fa diventare cattivə, allora si è sofferto a vuoto.
nessunə vorrebbe occupare il posto di chi sta male, ovvio. però chi sta male non vuole nemmeno essere visto solo come una vittima da compatire o qualcunə di cui pensare "al posto suo mi ammazzerei".
c'è chi lo pensa, certamente, e se quando si trova davvero in quella situazione sceglie di mollare tutto, ha pienamente diritto di non ricevere nemmeno un pensiero di biasimo.
ma dateci il beneficio del dubbio, almeno.
disabilità non vuol dire necessariamente "vita orribile che non vale la pena di essere vissuta", in molti casi non è così. non vuol dire essere solo vittime, non vuol dire essere sempre tristi, non vuol dire essere sempre arrabbiatə.
siamo creature complesse a prescindere da come è fatto il nostro corpo e da come funziona. non ci sono equazioni esatte.
per quello che arriva, da questo libro, io ho sentito che qualsiasi sofferenza abbia attraversato l'autrice, per quanto intraducibile sia, per quanto spaventata e arrabbiata con il destino che "ma perché proprio io?" (e chi non l'ha pensato almeno una volta, almeno miliardi di volte? ma la vita non è giusta né cattiva, è quella che è e basta, non conosce morale), non è stata una sofferenza vana.
e ho apprezzato tantissimo quando la malattia si fa meno problema personale e diventa istanza politica, e cioè quando mannocchi critica l'assurdità del nostro sistema sanitario, accessibile a tuttə sulla carta ma tremendamente classista nella realtà dei fatti.
la cosa più bella di questo libro è la sincerità, la totale mancanza di edulcorazione che c'è nel guardarsi dentro e nel guardare i fili che ci connettono allə altrə. a volte la sincerità si fa spietatezza ma mai crudeltà. ma la realtà è spietata, siamo noi a infiocchettarla per renderla adatta ai racconti in cui la stipiamo. francesca mannocchi non è una che indietreggia davanti alle cose spaventose, orribili, dolorose. non lo fa come giornalista, quando racconta la gente che vive nei territori devastati dalla guerra, e non lo fa come scrittrice, quando racconta la sua esistenza cambiata per sempre dalla malattia.
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