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venerdì 7 marzo 2025

orbital

resteranno così per nove mesi, nove mesi a fluttuare, nove mesi di testa gonfia, nove mesi di questa vita da sardine, nove mesi a osservare la terra a bocca aperta, per poi tornare giù, al pianeta paziente.
qualche civiltà aliena potrebbe avvistarli e chiedersi: cosa ci fanno qui? perché non vanno da nessuna parte, girano solo su se stessi? la terra è la risposta a tutte le domande.

l'ho fatto di nuovo.
ho letto un libro su cui avevo aspettative altissime e mi sono chiesta ma è davvero tutto qui?
orbital mi ha un po' delusa. un po' tanto.
per essere un capolavoro, il libro più chiacchierato del momento, una bellissima lettera d'amore al nostro pianeta, mi aspettavo qualcosa di più.

orbital racconta di sei astronautə - anzi, quattro astronautə e due cosmonautə (se ci interessa scoprire la differenza possiamo andare a fare una ricerchina online perché samantha harvey non ce la spiega) - in missione sulla stazione spaziale internazionale che, appunto, orbita intorno alla terra e che ha la funzione principale di laboratorio in cui svolgere esperimenti di ricerca scientifica di varia natura in assenza di gravità.
dallo spazio, quindi, il personale della stazione studia e sperimenta in favore nostro, mantenendo lo sguardo fisso - in senso letterale e non - sul pianeta. inoltre, sulla stazione si effettuano esperimenti che saranno utili ad eventuali futuri viaggi verso la luna o marte e, soprattutto, il suo carattere di internazionalità suggerisce l'idea che la cooperazione tra popoli e nazioni possa essere più utile e produttiva degli atteggiamenti di chiusura o, peggio, di quelli belligeranti.
idea abbastanza semplice ma, a quanto pare, abbiamo bisogno di lanciarci a duemila chilometri fuori dall'atmosfera per capirla.

la narrazione segue la durata di sedici orbite della stazione intorno alla terra, ovvero circa ventiquattro ore. una giornata nello spazio in cui, un po' come per il piccolo principe, si susseguono sedici albe e sedici tramonti, un gioco di luce e buio che illumina il pianeta visibile solo da chi ha l'incredibile, privilegiata prospettiva che solo la stazione internazionale può offrire.

«da quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini» è forse una delle frasi che meglio ha saputo mettere insieme poesia e politica. una frase semplicissima, pronunciata nel 1961 da gagarin. eravamo in piena guerra fredda ed era la prima volta che un essere umano riusciva a trovarsi abbastanza lontano dal pianeta da poterlo abbracciare interamente con il proprio sguardo.
una frase semplicissima che racchiude dentro di sé significati e messaggi fondamentali: la bellezza di un pianeta unico in uno spazio oscuro e sconfinato, l'unica casa che abbiamo e che dobbiamo preservare e proteggere (o magari, con un pelino meno di arroganza, limitarci a non distruggere), una sorta di gigantesca madre comune che ci rende tuttə fratelli e sorelle, un mondo intero su cui abbiamo giocato con linee immaginarie per poter dire questo è mio, quello è tuo. in questa frase c'è tutto.
ovviamente possiamo aprirla questa frase, scartarla come un regalo e osservare pezzetto per pezzetto cosa c'è dentro: magari così è più facile da capire, anche se però perdiamo quel tono poetico, quasi magico che ci fa salire le lacrime agli occhi ogni volta che la sentiamo o leggiamo.
mentre leggevo orbital mi rigiravo in mente questa frase.
e pensavo che, per fare letteratura, bastava così.

questo romanzo ha, secondo me, due enormi problemi: il primo è che è estremamente ridondante. va benissimo che non ci sia una vera e propria trama, va benissimo che non succeda niente, ma gli elenchi di paesi illuminati dal sole - la loro bellezza, i loro colori, il modo in cui le nuvole li nascondono o li svelano, come le luci artificiali tradiscono una presenza umana che altrimenti risulta invisibile - ripetuti più volte stancano. rallentano la lettura, ti fanno pensare ok, l'hai già detto, l'ho capito. e se non l'avessi capito potrei tornare indietro a rileggere, non serve che me lo ripeti.
il secondo, immenso problema (sottolineo: sempre secondo il mio personalissimo parere) è il punto di vista della narrazione. in queste ventiquattro ore lə personaggə alternano le loro voci, le loro emozioni, i loro ricordi, le loro considerazioni, ma molto spesso la voce narrante è quella di un noi collettivo e indefinito, come se in questa pluralità lə sei abitanti della stazione orbitante si fondessero e confondessero tra loro, trasformandosi in un'entità unica di cui solo a volte si riconoscono le diverse personalità. tutto questo mi ha fatto sembrare lə personaggə piattə, interscambiabili a volte, privi di una qualche riconoscibilità forte.

insomma, sono d'accordo con chi dice che orbital è una lettera d'amore verso il pianeta, molto meno con chi dice che questo amore si rivolge anche all'umanità: da un lato l'umanità dellə astronautə/cosmonautə è appiattita sul loro ruolo e su delle storie personali troppo accennate per diventare abbastanza importanti da restituire loro profondità. abbiamo troppo poco tempo a disposizione per poterlə conoscere quel tanto che servirebbe a riuscire ad avvicinarci a loro, sbirciamo nelle loro menti solo per un giorno, solo per ventiquattro ore in cui i loro pensieri rincorrono ricordi lontani, preoccupazioni, lutti, l'idea di essere solo a dieci centimetri di titanio dalla morte. troppo e troppo poco tempo per permetterci di conoscerlə.
dall'altro lato, il resto dell'umanità della terra è cancellata dalla distanza.
si intravedono solo gli effetti - quelli peggiori - della sua presenza:
la mano della politica è così visibile da lì, che si chiedono come hanno fatto a non accorgersene subito. è evidente in ogni dettaglio - come la forza di gravità ha fatto del pianeta una sfera e ha spinto e tirato le maree che modellano le coste, così la politica l'ha scolpito modellato, lasciando ovunque tracce di sé. vedono finalmente la politica dell'avidità. la politica del crescere e del prendere, la voglia di avere di più declinata in miliardi di modi diversi, ecco cosa vedono guardando in basso.
quell'umanità che poeticamente scompare alla luce del sole, troppo piccola per poterla vedere da lassù, lascia tracce devastanti sul pianeta. è un'umanità che ha perso la sua innocenza primordiale, che ha smesso di limitarsi a popolare il pianeta per iniziare a plasmarlo secondo il proprio bisogno e il proprio profitto, un'umanità avida che non si rende conto della sua piccolezza, della sua fragilità, del suo essere poco più che nulla in confronto a quello che si estende all'infinito davanti agli sguardi dell'equipaggio della stazione internazionale. più che d'amore, mi è sembrata una lettera piena di sconforto verso quelle creature minuscole che rosicchiano il loro stesso futuro.

e quindi: mi è piaciuto orbital? nì. per essere un libro così chiacchierato, mi aspettavo qualcosa di più.
ha dei passaggi straordinariamente belli ma diluiti in troppe pagine che mi hanno annoiata, ha un linguaggio ricercato ed elegante, ma a volte sembra che questo lirismo sia inutilmente stiracchiato, come se cercasse ad ogni costo di colpire lə lettorə che, nel frattempo, ha imparato a difendersi.

martedì 21 gennaio 2025

l'airone della pioggia

ma ancora più curioso fu quel che videro dopo: un airone gigantesco, del colore della pioggia, che con un balzo fulmineo emerse all'improvviso dall'acqua senza lasciare nemmeno un'increspatura.

mentre leggevo l'airone della pioggia immaginavo i paesaggi e lə personaggə come se fossero quellə di un film dello studio ghibli. le atmosfere e le tematiche in effetti si avvicinano moltissimo a quelle che si ritrovano nei film diretti da miyazaki, ma declinate in modo molto più cupe e adulte.
già dall'inizio, da quel capitolo zero che somiglia a una favola o a una leggenda antica, robbie arnott ribalta i toni del racconto popolare. c'era una volta una contadina molto povera e sfortunata. un giorno l'airone della pioggia decise di aiutarla, e la contadina iniziò a vivere una vita felice e prospera, senza avidità, condividendo con lə altrə la sua nuova fortuna.
ma gli esseri umani sono creature capaci di invidia, gelosia e crudeltà, e per colpa di uno di loro, della sua rabbia cieca e dei suoi atti scellerati, la contadina tornò a vivere nella sfortuna e nella miseria, abbandonata dall'airone della pioggia, fino al giorno in cui incontrò una morte solitaria e miserabile.

misterioso e capriccioso come un dio, l'airone della pioggia è una creatura nata nella leggenda. o almeno, ren l'ha sempre pensato così, fino al giorno in cui, dopo un'interminabile scalata tra le montagne quando era ragazzina, sua nonna non la condusse fino a dove viveva l'airone.
vivo, reale, lì davanti ai suoi occhi questa creatura impossibile, pallida e lucente, appariva proprio come nelle leggende: il corpo fatto d'acqua, capace di lasciare filtrare attraverso di sé i raggi del sole, di librarsi in volo e di fluire come un ruscello. non poteva più dubitare, adesso, della sua esistenza, né faticava a credere che avesse potere sulla pioggia e sulla siccità, sull'abbondanza e la carestia, sulla vita e sulla morte.

adesso, ren vive sulla montagna, lontana dal resto dellə abitanti del paese e dalla guerra. le sue giornate sono difficili e pericolose, il suo tempo è tutto votato alla caccia e alla raccolta, alla sopravvivenza che in buona parte dipende anche dalla sua amicizia con barlow, un uomo che le procura quello che non può trovare nei boschi in cambio di qualcuna delle sue prede.
la loro è un'amicizia strana, fatta di silenzi interrotti da poche parole, solo se necessario. ren non vuole conoscere la sua vita, non vuole parlare della sua famiglia né di suo figlio: sa, per esperienza, di quali follie siano capaci lə giovanə, quanto sia facile per loro scegliere male e ferire chiunque pur di seguire ostinatamente le loro idee.
le giornate di ren sono difficili e pericolose ma immerse in paesaggi selvaggi, ostili e bellissimi. robbie arnott sa raccontare il bosco con parole che sanno farci sentire il suono dei ruscelli e respirare l'aria fresca che passa tra le foglie. la vita di ren è spalancata sull'enormità dell'essenziale: procacciarsi il cibo, trovare rifugi caldi e sicuri, difendersi dai pericoli, strappare alla grandezza del mondo un giorno dopo l'altro.
ma il giorno in cui un manipolo di soldati, guidati da una donna giovane, bellissima e spietata, segna la fine di tutto. ferita e braccata, ren è diventata la preda della comandante harker e del suo obiettivo: catturare l'airone della pioggia.

la storia di harker inizia lontano dal bosco, al nord del mondo, in un paesino gelido accovacciato sulle rive del mare. lì, la gente custodiva gelosamente il segreto dell'inchiostro che commerciava con il resto del mondo, garantendosi prosperità persino in un angolo di mondo così sperduto e ostile.
orfana, harker viveva con la zia, la donna che le aveva insegnato il segreto della pesca e della produzione d'inchiostro e che rideva di ogni cosa, in modo incontrollabile e spesso incomprensibile.
la vita della piccola harker e di tutto il villaggio viene stravolta dall'insistenza di un forestiero deciso a massificare la produzione di inchiostro e di arricchirsi con quel segreto che nessunə era disposto a condividere con uno straniero.
ma l'avidità, si sa, non porta altro se non disgrazie e fallimenti e harker, perduto il suo posto sul mare, inizia a viaggiare, diventa una soldata, si unisce alla guerra e si piega agli ordini di chi, probabilmente, non avrebbe mai ascoltato quando era bambina.

l'airone della pioggia è stato definito una eco-favola ma credo che meriti qualcosa di più di un'etichetta così facile. robbie arnott ha uno stile asciutto, essenziale ma allo stesso tempo poetico ed evocativo, capace di mostrare paesaggi incantevoli e spaventosi, e di raccontare le turbolenze che investono l'animo umano. le storie di ren e harker, il modo in cui i loro destini si incontrano e si intrecciano quasi come fossero divinità capricciose a orchestrarne le coincidenze, dà al romanzo un tono sì fiabesco, ma più vicino al mito che al racconto per bambinə.

durante la lettura, l'incanto per i paesaggi naturali e gli elementi quasi magico-mitologici che ne fanno parte si contrappone con violenza al senso di rabbia e frustrazione che nasce dalla riflessione sull'avidità, sullo sfruttamento impietoso, sul desiderio di dominio di pochə che però stravolge la realtà di moltə, offendendone la memoria e mortificandone il futuro.
ci sono infiniti modi per criticare gli effetti devastanti del capitalismo, della guerra e del colonialismo ai danni delle popolazioni, umane e non, e delle loro terre. scegliere tra tutti questi il romanzo - focalizzarsi cioè su storie individuali e scandagliarle anche dal punto di vista più intimo, evocare immagini così nitide ed emozioni così forti - è forse la via più breve per toccare i nostri sentimenti e risvegliare la nostra più profonda consapevolezza del mondo in cui viviamo.
l'airone della pioggia è più che un'eco-favola, è una denuncia contro la frattura tra umano e non-umano in nome del potere e della ricchezza, una denuncia rabbiosa e addolorata che però si concede la speranza di una redenzione.

mercoledì 14 settembre 2016

sono dio

è questo diario che sto scrivendo che mi sta portando alla rovina. uno scrive, e più scrive, più si sdilinquisce, è inevitabile, e va a finire che si mette in testa ogni sorta di fesserie. comincia a sragionare, s'innamora.

cosa succede se a un certo punto dio comincia a scrivere una sorta di diario? succede, come succede per tutti, che a furia di pensare e ripensare a quello che guarda, inizia a provare dei sentimenti inaccettabili per una divinità (l'unica divinità. avesse magari dei colleghi con cui chiacchierare, magari non si sarebbe sminuito a scrivere come un uomo e a usare il linguaggio povero e inefficace degli uomini). e, insomma, stanco di vagare (non è che dio vaghi, però più o meno si può dire così) per l'universo, decide di dare un'occhiata alla terra, in particolare a quelle mal riuscite creature che sono gli esseri umani, ancora più in particolare a una ragazza, non troppo bella, magra sopra e cicciotta sotto, intelligente, questo sì, ma atea (questo da un po' fastidio a un dio, ma che ci vuoi fare?) e di facili costumi, che fa la genetista e nel tempo libero passa il tempo a ingravidare artificialmente vacche (anche questo da un po' ai nervi a un dio che ha creato mucche e tori in modo che si riproducessero senza problemi, ma gli uomini sono così, che ci vuoi fare? non si può mica apparire ogni momento sulla terra a correggere tutte le cazzate che gli uomini fanno in continuazione), e insomma, in qualche modo dio inizia ad affezionarsi un po' troppo a questa ragazza, nonostante tutto. è imbarazzante dirlo, si tratta pur sempre di dio, ma osserva e osserva, alla fine si innamora.
già.
di un'umana neanche bella, intelligente, ok, ma che non crede in lui, che brucia crocifissi e crede che la scienza sia la risposta di tutto. poteva andar peggio?
ovvio.
perché non appena dio comincia a pensare come gli uomini, a parlare come gli uomini e poi a provare un sentimento così umano, allora poi va tutto a rotoli, e quel dio che ha sempre guardato con distacco il gran casino che gli uomini stanno combinando sulla terra, a un certo punto inizia a provare rabbia, invidia (assurdo, no?), voglia di debellare quelle creature promiscue e pericolose che stanno distruggendo tutto quello che lui ha creato (e bisogna dire che ha fatto un bel lavoro).
ma in fondo lui è dio. c'è mica bisogno di prendersela tanto? (ecco perché siamo salvi e sto ancora qui a scrivere la recensione di questo libro)

giacomo sartori con sono dio ha fatto un gran bel lavoro, ha scritto un romanzo divertente e intelligente, un romanzo che sembrerebbe parlare di dio, ma alla fine parla degli esseri umani, delle loro scelte (spesso sbagliate), del loro destino (non il destino inteso come strada tracciata da un'entità estranea e superiore, ma come l'inevitabile conseguenza delle azioni compiute), della loro arroganza e delle loro debolezze.
di certo leggerlo non vi cambierà la vita, ma qualche ora di piacevolissimo intrattenimento - e qualche spunto di riflessione, che non fa mai male - lo regala.

venerdì 29 luglio 2016

sembrava una felicità

a meno che non siate nati negli anni duemila, credo che vi ricordiate bene com'era guardare le diapositive da piccoli, l'attesa tra una foto e l'altra, il ronzio del proiettore di sottofondo, il pulviscolo illuminato sospeso a mezz'aria.


sembrava una felicità mi ha catapultato in una sorta di stanza mentale, buia, riscaldata dal motorino del proiettore e riempita da quel ronzio ansiogeno: click - immagine - buio - click - immagine - buio.
mentre leggevo cercavo di dare un nome, di definire in qualche modo quella sensazione che mi metteva addosso il racconto. non era esattamente ansia, era qualcosa di diverso, una sorta di aspettativa puntualmente spiazzata. cosa sta provando questa donna che mi racconta a spezzoni la sua vita? cosa la scuote così forte nonostante provi a ogni costo di rimanere ferma?
me lo spiega direttamente lei con queste frasi: stato di perplessità che precede il crollo schizofrenico. è accompagnato dal cosiddetto "sguardo della verità".
ecco cosa c'è.
la prima parte del racconto sembra un enorme climax verso il crollo, un crescere di ansia mai veramente riconosciuta.
una donna vuole diventare una scrittrice, un mostro d'arte.
si innamora. si sposa. ha una figlia che ama follemente e dalla quale, in qualche misura, sembra soggiogata e spaventata. perde la sua ambizione senza rassegnarsi a farlo. la sua vita è come una collana in cui i piccoli, innocui disastri si susseguono come perle. l'amore è il filo che tiene tutto insieme, che da all'esistenza un equilibrio, se pur fragile.
è nel momento in cui questo filo si spezza che si spezza qualcosa pure nella voce che racconta la sua storia, al punto che smette di parlare di sé e inizia a raccontarsi in terza persona, ormai svuotata di desideri e significati: non è più io, è la moglie, una creatura che, come la parola che usa per definirsi, ha senso solo in relazione a un'altra. è un'altra, si è tirata letteralmente fuori dalla sua vita, sta come davanti a uno schermo a guardarsi. una lunga serie di diapositive in cui non vuole più riconoscersi.

quando ho preso questo libro, a una marina di libri, mi hanno detto è bellissimo, molto sperimentale, merita moltissimo. e quindi mi aspettavo parecchio, per questo l'ho lasciato un po' da parte, con il timore che potesse deludermi.
invece, nonostante le premesse fossero già ottime, mi ha sorpresa parecchio - ovviamente - in positivo. jenny offill è entrata a pieni voti nella categoria autori di cui voglio leggere tutto il leggibile.