venerdì 12 dicembre 2025

riti di passaggio ~ intervista a luisa teresa cremonese

come si raccontano trent'anni di vita, trent'anni di lavoro in giro per il mondo con la pretesa di alleviare le sofferenze degli altri? con quale bagaglio si torna a casa? si apre la valigia e ne escono momenti che insistono per essere raccontati, che vogliono trovare un loro posto nel presente. questo libro è il loro posto, il posto dove possono trovare pace e un equilibrio con giornate ora piene di piccole cose senza importanza.

ho conosciuto luisa cremonese qualche anno fa, durante un corso di scrittura creativa. mi piaceva un sacco il modo in cui scriveva e mi piaceva la naturalezza con cui parlava dei suoi viaggi e del suo lavoro, trent'anni passati a girare il mondo, nei contesti più assurdi, pericolosi e dolorosi del mondo, quelli di cui di solito si sente parlare al tg, non quelli in cui organizzeresti un viaggio per le vacanze.
un po' di tempo dopo, luisa mi chiede se mi va di fare dei disegni per dei racconti che ha scritto, alcune storie che fanno parte di quella gigantesca raccolta di esperienze vissute e persone incontrate che ha accumulato e custodito con cura per anni. penso di aver fatto i disegni migliori di sempre (per i miei standard) per questo libro, avevo già letto alcune di queste storie ed ero emozionatissima - lo sono ancora! - di poter far parte di una cosa così bella e importante.

qualche settimana fa luisa mi ha portato una copia - anzi, due, perché al momento il libro esiste anche in spagnolo e presto sarà disponibile in inglese - di riti di passaggio e, se possibile, mi sono emozionata ancora di più: questi racconti sono incredibili, dolorosi e pieni di speranza allo stesso tempo. sono storie di chi ha vissuto la guerra, la paura, la miseria e ogni possibile sofferenza sulla propria pelle ma che comunque ha continuato a vivere, a ridere e a piangere, a sperare, a immaginare un futuro. e sono le storie di chi ha fatto in modo che un futuro si potesse ancora immaginare.

mai come in questi ultimi anni abbiamo sentito parlare tanto di diritto umanitario e mai come in questi ultimi anni ho pensato all'importanza fondamentale che il lavoro dellə operatorə umanitarə ha in contesti di guerra. in riti di passaggio si vedono - si sentono, si annusano, si vivono - questi contesti, e si capisce chiaramente in cosa si traduce questo lavoro nei fatti, nella sconvolgente quotidianità di quelle parti di mondo che non riusciamo neppure a immaginare.

luisa restituisce storie e memorie, strappa persone e famiglie all'oblio di un mondo che considera una buona fetta della popolazione mondiale come sacrificabile e le loro storie come scarsamente interessante, e lo fa con una delicatezza e un rispetto straordinari. leggendo e rileggendo queste storie mi sono commossa più volte, mi sono stupita, mi sono costretta e pensare a cosa vuol dire guerra quando questa parola si appiccica alla vita di ogni giorno, striscia dentro le case, si insinua tra le famiglie. e ho perso tutte le parole che avrei potuto inventarmi per provare a dire cosa ho sentito.

ho invitato luisa a parlare di riti di passaggio qui sul blog, quindi vi lascio alle sue parole - sicuramente più sensate delle mie. buona lettura!

ciao luisa, grazie mille per aver accettato il mio invito e benvenuta su claccalegge!
prima di iniziare a parlare del tuo libro, riti di passaggio, ti andrebbe di presentarti allə lettorə del blog?

► Grazie a te, Claudia, per questa opportunità. Seguo con molto interesse il blog di Claccalegge ed è un onore per me poter presentare qui il mio libretto. Io ho lavorato per 30 anni all'estero con diverse missioni umanitarie delle Nazioni Unite, e sono rientrata definitivamente in Italia da circa un anno. Ho vissuto a lungo in America Latina, tra Messico, Colombia, centro America e sud America. ho passato vari anni nei Balcani, durante e subito dopo la guerra. Sono stata lunghi periodi in medio oriente, in Africa e nei paesi dell'Europa dell'est. Il mio lavoro si è svolto sempre in prima linea, in zone colpite da conflitti di alta e spesso bassa intensità, ma persistenti. Mi sono occupata, assieme ai miei colleghi e colleghe, di organizzare l'assistenza umanitaria a popolazioni sfollate. Questo significa aiutarli a sopravvivere costruendo rifugi, facilitando l'accesso a cibi e cure mediche, cercando di far funzionare scuole e attività educative anche in condizioni precarie. Ma si tratta anche di negoziare condizioni di vita dignitose, relazioni amichevoli con le popolazioni che si trovano nelle loro comunità gente nuova e molto spesso fragile e traumatizzata. Perché l'accoglienza funzioni c'è bisogno della solidarietà di chi accoglie, di chi non si gira dall'altra parte e decide di aiutare. La solidarietà è una condizione che va coltivata, protetta e rinforzata costantemente, non si può dare per scontata, soprattutto quando le persone sfollate vivono per periodi lunghi, spesso per anni, in zone, paesi, città dove spesso i servizi sono già scarsi per i residenti. E con questo sono già entrata nell'essenza del mio libro!
ecco, parliamo di questo libretto, piccolo ma straordinario: come e quando è nato il desiderio di scriverlo? e perché hai deciso di intitolarlo riti di passaggio?
► In vari momenti, durante tutti questi anni, ho preso appunti, mi sono segnata nomi e fatti di persone che ho incontrato e che mi sono rimaste impresse nella mente e nel cuore, che mi hanno marchiato e hanno inciso dentro di me una serie di cicatrici invisibili, che però sanguinano ancora.
Poi qualche anno fa questi appunti hanno cominciato a prendere forma, a diventare storie. Storie che premevano per essere raccontate. Scriverle è diventato per me una maniera di prendermi cura di loro, ma anche di me
I riti di passaggio sono proprio questo: da ferita a cura. Mi è capitato di promettere ad alcune persone, come la piccola Juana, che non mi sarei dimenticata di loro.
Per me è stato anche il passaggio da un mondo ad un altro: venire a casa mi ha portato a imparare a vivere qui di nuovo. Non lo sapevo più, non lo ricordavo più.
Ecco, posso dire di avere vissuto in questi mesi la sindrome del reduce.
riti di passaggio è una raccolta di nove racconti molto brevi ma molto intensi, alcuni di questi sono, diciamo, a lieto fine, altri sono molto cupi e dolorosi, mentre l'ultimo, come dicevi, è dedicato proprio al "ritornare a casa". come hai scelto, tra tutte le esperienze che hai vissuto, quali storie raccontare? e c'è una storia in particolare che ti porti nel cuore, che per te significa qualcosa più delle altre?
► Le storie erano molte di più, veramente molte. Ho tagliato quelle più violente, dolorose, non risolte. Non c'è bisogno di bruciare tra le fiamme dell'inferno per sapere che esiste. E non tutte le ferite si sono cicatrizzate.
Così ho deciso di condividere quelle con cui ho fatto pace.
Tutte mi sono care, ma forse quella che ho più in mente è la storia del carabiniere Zappalà. E ce l'ho in mente per una parte non scritta, per una storia parallela che è rimasta nella mia penna e che forse un giorno racconterò. Si tratta della storia di un bambino di due anni, Guillermo, che faceva parti di quel gruppo che accompagnavo. Era nato coi piedi all'indietro e non poteva camminare. Si trascinava per terra, con grande fatica. strisciava in mezzo al fango, sui sassi. La madre era incinta e aveva altri bambini piccoli e non riusciva a stargli molto dietro. Il padre, quando non lavorava, se ne prendeva cura con un amore commovente. Ecco, se lo avessimo lasciato andare così, avrebbe strisciato per tutta la vita. Allora con un collega abbiamo convinto la famiglia di lasciarcelo portare in città per sentire se era operabile.
Ci sono voluti sei mesi, ma alla fine Guillermo ha camminato. Non ti dico cosa ho sentito quando lo ho visto in piedi, con le scarpe ortopediche, che camminava con passo lento e pesante ma fermo e sicuro. Prima di partire con suo padre mi ha preso la mano e me la ha stretta forte. E mi ha guardato con quei suoi occhioni neri come la notte. Non lo dimenticherò mai
Per anni hanno sempre trovato il modo di mandarmi notizie, anche se vivevano in un posto molto isolato e io ero in viaggio per il mondo.
questa di guillermo è una storia bellissima e fa capire cos'è il lavoro di aiuto umanitario molto bene. ma prima di parlare di questo, volevo chiederti cosa vuol dire "fare pace" con una storia? e come ci si riesce?

► Bella domanda. A volte nel mio lavoro si ha la presunzione di poter risolvere i mali del mondo. Ci si crede invulnerabili all' orrore a cui si assiste ogni giorno. Invece sono i mali del mondo che finiscono per corromperci. Il dolore insensato, la violenza, la brutalità ti guastano. Il lato oscuro del lavoro umanitario si chiama Post Traumatic Stress Disorder, si chiama trauma vicario, si chiama dipendenza, qualsiasi tipo di dipendenza.
Allora, per me fare pace significa imparare a lasciare andare le persone con le loro storie, saper dire addio, sentire compassione ma non assumere il dolore altrui come proprio. Alla fine questa è una forma di rispetto.

tu hai scelto un lavoro meraviglioso, fondamentale e anche estremamente difficile, che ha definito moltissimo la storia della tua vita: quando hai deciso che saresti diventata un'operatrice umanitaria? e cosa ti ha spinto a prendere questa decisione?
► Più che una decisione è stato un destino. Ho sempre saputo che avrei fatto QUESTO. Non sapevo con chi, dove e come, quello è venuto dopo
Per me le Nazioni Unite sono state, e spero lo saranno di nuovo, il punto più alto della civiltà umana: riconoscere i diritti di tutte le persone in quanto persone è la più grande rivoluzione mai avvenuta. Riconoscere un'istituzione che protegge questi diritti come scopo principale, che regola i rapporti tra le nazioni in nome di questi diritti è quanto di più avanzato l'umanità sia riuscita ad esprimere.
E adesso...
negli ultimi mesi, però, molte risoluzioni dell'onu - mi riferisco a quelle in merito al genocidio in corso a gaza - sono state bloccate dal diritto di veto degli stati uniti, un comportamento che di "umanitario" ha avuto veramente poco. come sono stati vissuti questi momenti da chi ha speso buona parte della sua vita tenendo fede a un'idea che più volte è stata tradita in questo modo?
► L'unica cosa da fare che mi viene in mente è quella di non perdere anche la memoria. Berthold Brecht faceva dire a Galileo Galilei, costretto ad abiurare le sue scoperte, che ci sono momenti in cui bisogna mettere la verità sotto il mantello. Dicendo questo affida tutti i suoi scritti al suo discepolo più fedele, perché il metta in salvo.
Viviamo in un'epoca infame, dobbiamo resistere.
penso che vorrei farmela tatuare quest'ultima frase. tornando a "riti di passaggio", c'è una cosa che mi ha incuriosita parecchio in questo libro, forse una cosa molto piccola in confronto ad altre vicende che racconti, e cioè la storia del cane mussolini. la sua padrona ha deciso di chiamarlo così perché è tutto nero, quasi fosse uno scherzo. quando l'ho letto per la prima volta, mi è sembrato quasi un sacrilegio usare quel nome con tanta leggerezza, poi mi sono accorta che il mio punto di vista è quello di una persona che crede nei valori dell'antifascismo e che sente "sua" la storia della resistenza al nazifascismo in italia, mentre per altre persone, invece, il nome di mussolini può dire molto meno… ti è mai capitato, in questi anni di lavoro in giro per il mondo, di affrontare una situazione che si scontrava completamente con il tuo sistema di pensiero, al punto da risultarti incomprensibile?
► È proprio come dici, le percezioni e il vissuto delle persone sono molto diversi a seconda di dove vai. Se ho imparato una cosa in questi anni è quella di non giudicare. Un poco alla volta ho cercato di spogliarmi di ogni rigidità e di non avere la pretesa di capire sempre. Il mio unico punto fermo è rimasto quello del rispetto verso le altre persone. Se qualcuno fa del male a qualcun altro, lì non c'è rispetto, lì abbiamo il dovere di intervenire.
nelle tue storie non ci sono mai riferimenti spazio-temporali precisi. ho pensato che fosse per "proteggere" le persone di cui parli, che sono state vittime di situazioni tragiche e terrificanti, ma che allo stesso tempo, non situare questi racconti in un contesto mostra come la sofferenza umana - e la forza di chi resiste - sia la stessa, in ogni tempo e in ogni luogo…
► In buona parte è così, effettivamente. La confidenzialità nel nostro lavoro è una componente vitale, non solo per le persone protagoniste delle storie, ma anche per chi ci lavora.
Sai una cosa che fa la differenza in questo libro? I disegni. I disegni sono quasi una fotografia di una parte di queste storie, sono così armonici e integrati con il testo che non potrei immaginare questo libro senza di loro.
ahah, mi fai arrossire! volevo dirtelo alla fine per non rubare spazio, ma ci tenevo a ringraziarti anche qui per avermi dato la possibilità di fare parte di questo libro così bello, è stato davvero emozionante vederli stampati! grazie davvero!
torniamo a te: so che per te la scrittura è qualcosa di fondamentale e sempre presente, lo dici anche nel libro quando racconti il tuo ritorno a casa. hai dei nuovi progetti in mente?
► Certo, ho appena completato un libro assieme a un artista spagnolo. Io ho scritto la critica alle sue opere. Te lo mando, dacci una occhiata, ne sono molto orgogliosa!
L'artista ha la sindrome di Down e per questo non è stato preso molto sul serio nel suo percorso
E comunque continuerò a scrivere. In queste settimane voglio completare una serie di racconti lunghi, tutti centrati sulla frontiera, intesa come spazio fisico ma anche mentale. Poi ho il progetto di un romanzo a cui spero di lavorare nel 2026.
non vedo l'ora di leggerli!
ti ringrazio per il tempo che ci hai dedicato e per avermi dato uno spazio così importante in riti di passaggio, continuerò a consigliarlo a tuttə! in bocca al lupo per i tuoi prossimi lavori e a prestissimo!
► Grazie a te, è stato veramente un piacere.


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lunedì 8 dicembre 2025

il segreto delle caramelle al pompelmo

come potrei essere arrabbiata con chikako e mayumi perché mi nascondono qualcosa? ci sono cose che neanch'io sono mai riuscita a dire.

sicuramente, avete visto almeno una volta i konpeitō, le tipiche caramelline giapponesi coloratissime con quella strana forma bitorzoluta che ricorda un po' delle stelline. per intenderci, sono quelle che fanno impazzire i nerini del buio de la città incantata.

i nerini del buio alle prese con una pioggia di konpeito


in realtà, come suggerisce il nome, questo tipo di caramelle non sono originarie del giappone, ma arrivano nel paese del sol levante tra il XV e il XVI secolo dal portogallo (dove si chiamano confeito) insieme ai missionari.
per preparare i konpeitō ci vogliono dai sette ai dieci giorni: l'acqua zuccherata - ed eventualmente aromatizzata - viene lavorata dentro la dora, una vasca roteante, ed è il processo stesso di cottura a creare le protuberanze che caratterizzano queste caramelle.

perché parlare dei konpeitō? perché il segreto delle caramelle al pompelmo gira proprio intorno a una pasticceria, la itō kompeitō - che ha fatto della produzione di questi zuccherini la sua specialità - e intorno alla famiglia che la gestisce, la cui storia ha un sapore a metà tra il dolce e l'aspro, proprio come una caramella al pompelmo.

siamo nel giappone di oggi, in un piccolo villaggio affacciato sul mare. è estate, c'è una luce calda e felice che avvolge ogni cosa, che fa brillare il mare e accende il verde degli alberi, ma l'atmosfera di itō kompeitō è molto meno dolce e allegra di quanto ci si aspetterebbe.

da quasi un anno, infatti, l'appartamento sopra al negozio di caramelle è abitato soltanto dalla vecchia chikako, oltre che da shiro, il gatto bianco di famiglia. l'estate precedente l'unica figlia di mayumi è andata via da casa senza dire nulla, poco dopo la morte di yasuo, suo padre, lasciando sua mamma a chiedersi il perché di questo allontanamento inspiegabile, per di più in un momento così delicato.


a distanza di un anno, però, la vita di chikako si anima inaspettatamente: la nipote suzu, che aveva vissuto per parecchio tempo nella loro casa da ragazzina, è tornata insieme ai due figli, con un matrimonio distrutto alle spalle e tanti brutti ricordi da cancellare, e poco dopo anche mayumi si ripresenta senza alcun preavviso...

la storia dell'ultimo anno di questa famiglia viene presentata attraverso le diverse prospettive dellə personaggə, in un continuo svelarsi di segreti, paure, speranze e delusioni. il segreto delle caramelle al pompelmo mette in scena i piccoli e grandi drammi comuni a così tante persone, e l'esperienza, così facile da vivere, del non riuscire a raccontarsi completamente neppure alle persone che più amiamo per colpa di quella stupida idea che mentire è meglio che ferire le persone a cui vogliamo bene condividendo con loro un pezzettino del nostro dolore.
l'unico testimone, il più silenzioso e riservato possibile, è proprio shiro, il gatto bianco, sempre presente nei momenti più difficili, quasi fosse una sorta di spirito guardiano... o, come immagina il piccolo rin, un supereroe che difende la sua famiglia.

camille monceaux tratta temi piuttosto importanti e "pesanti" con estrema delicatezza e senza sensazionalismi, che spaziano dalla violenza domestica all'autolesionismo, dall'accettazione della propria sessualità e dei propri sentimenti al lutto, mentre i disegni di virginie blancher - che, devo ammettere, inizialmente mi avevano un po' respinta ma a cui mi sono abituata durante la lettura, fino al punto da non riuscire a immaginare un altro stile così tanto adatto a questo tipo di storia - alleggeriscono i toni, regalando a una storia drammatica e "adulta" un'atmosfera più leggera, che anticipa il lieto fine che - fidatevi - a un certo punto arriva.

il segreto delle caramelle al pompelmo è una lettura-coccola, ma anche un interessante commistione di oriente e occidente: le atmosfere sono quelle che abbiamo imparato a conoscere dai manga e dagli anime, eppure i toni della narrazione e lo stile dei disegni lo avvicinano moltissimo a quelle opere più tipicamente europee, capaci di parlare a target di pubblico forse più ampi di quelli delle riviste nipponiche.

mercoledì 3 dicembre 2025

le indegne

qualcuno grida nel buio. spero che sia lourdes.
le ho messo degli scarafaggi nel cuscino e poi ho cucito la federa di modo che stentino a uscire, che le zampettino sotto la testa oppure sopra la faccia (magari le si infilassero nelle orecchie per deporre le uova nei suoi timpani e sentisse le larve ferirle il cervello). ho lasciato delle piccole aperture perché possano sgusciare fuori lentamente, con fatica, come fanno quando li prendo (li catturo) tra le mani. certi mordono. hanno scheletri flessibili, si appiattiscono per passare attraverso fessure minuscole, sopravvivono senza testa per diversi giorni, resistono a lungo sott'acqua, sono affascinanti. mi piace stuzzicarli. taglio loro le antenne. le zampe. li infilzo con degli aghi. li schiaccio con un bicchiere di vetro per osservare attentamente quella struttura primitiva e brutale.
li bollo.
li brucio.
li uccido.


una donna scrive.
lo fa di nascosto, su fogli rubati, con inchiostro arrangiato. dopo piegherà per bene quelle pagine e se le legherà addosso, così che nessunə possa trovarle, perché scrivere è proibito e se la scoprissero la sua punizione sarebbe esemplare.
scrive parole cattive perché sono le uniche che possono descrivere un mondo cattivo come il suo.
all'interno della sacra sorellanza, lei è un'indegna, proprio come lo è lourdes, a cui ha promesso un disgustoso risveglio notturno.
scrive di speranze e di memorie, scrive della vita quotidiana della sorellanza.

quello che sappiamo di questa organizzazione e di tutto quello che accade tra le mura che la ospita - mura appartenute a un vecchio convento di monaci di cui non si sa più nulla, forse uccisi dalle malattie, forse assassinati - arriva proprio da questa sorta di diario, se diario si può chiamare lo scritto di una donna a cui è stato proibito tener conto del trascorrere del tempo. un diario senza date, un lungo flusso di coscienza che diventa testimonianza e insieme strumento della presa di consapevolezza della sua autrice.
senza fede, non c'è salvezza.
qui, le giornate trascorrono come una serie di sogni perversi e allucinati, fatti di pentimento, punizioni corporali, umiliazioni, paura e speranza miserabili. per l'anonima protagonista, il sogno più grande è di elevarsi dal ruolo di indegna e diventare un'illuminata per poter passare oltre quel portone sempre chiuso, lì dove solo chi è davvero pura può accedere.

la sorellanza è organizzata in una rigida gerarchia: al gradino più basso, le serve, i cui corpi sfregiati e malati impediscono di elevarsi a qualcosa di più. a loro spettano i compiti più umili e gravosi, e vengono guardate con sprezzante senso di superiorità dalle indegne, appena un gradino sopra, che possono però sperare di diventare elette o illuminate.
le elette - sante minori, diafane di spirito e auree piene - sono creature mutilate: accecate, con i timpani sfondati o con la lingua strappata, sono intermediarie tra i due mondi - terreno e spirituale - che si congiungono nella nuova, dolorosa forma dei loro corpi deturpati.
la loro è la dimensione della sofferenza e dell'obbedienza, che sono la loro missione: espiare, sacrificarsi giorno per giorno, offrire in dono il proprio dolore così da impedire altre catastrofi.
infine, ci sono le illuminate, con i loro corpi integri e perfetti, espressione di uno spirito puro che si è elevato, pur nel mondo materiale, fino al divino. vivono separate e nascoste dietro un enorme portone pesante, in un luogo altro e inaccessibile della casa. l'unica cosa che riesce a varcare la soglia è il loro canto.
sopra a tutte loro dominano due figure: la sorella superiora e ancora più in alto lui, l'unico uomo della casa della sorellanza, una figura distante, fredda e crudele.
l'uccello è morto guardando il cielo tra le foglie degli alberi. oppure guardando le stelle. è morto circondato di bellezza.
fuori dalla casa della sacra sorellanza, il mondo cade sotto i colpi di una crisi totale: il clima è al collasso e la società è completamente distrutta. privata di ogni possibile struttura, si è ridotta a un ammasso di persone che cercano di sopravvivere tra fame, caos e malattie.
chi dal mondo esterno arriva fino alle mura della sacra sorellanza può affrontare due destini: la morte immediata, se uomo, o una possibile consacrazione come indegna o come serva, se donna.
nello spazio intermedio, liminale, tra la casa e il resto del mondo, agustina bazterrica sceglie di collocare un bosco, il luogo per antonomasia di transizione e trasformazione, il luogo in cui passato, presente e futuro, causa ed effetto si ricollegano, i fatti diventano narrazione e ogni storia inizia davvero.

ne le indegne il bosco è molto più degli alberi che lo popolano, della luce che attraversa le loro foglie, della terra e dei pochi animali che ancora vi sopravvivono. dal momento in cui la narratrice-protagonista si ritrova a scriverne, il bosco si declina in qualcosa di più che uno spazio fisico.
le esperienze nel bosco - e la scrittura successiva di quelle esperienze - mettono in moto un concatenarsi di emozioni e ricordi che rivelano la storia di questa anonima cronista precedente al suo arrivo nella sacra sorellanza.
il bosco, da sepolcro degli affetti più cari, si trasforma in grembo di una ritrovata memoria e consapevolezza.

a catalizzare questo processo di metaforica morte-e-rinascita è lucía, una ragazza appena arrivata, attraverso il bosco, alla casa della sacra sorellanza.
lucía è, al contrario di chiunque altra, miracolosamente - e inspiegabilmente - incontaminata dalla crudeltà del reale che domina fuori e dentro le mura della sorellanza. tra le indegne, la sua umanità la fa apparire quasi come una creatura ultraterrena, una sorta di folle santa, o di strega, pronta a immolarsi rifiutandosi di partecipare a quel gioco mortale del tutte contro tutte che anima la casa della sorellanza.
il sudiciume che hanno assorbito dalla terra malata ha lasciato sul loro corpo stigmi permanenti, per ricordarci che la corruzione incombe su di noi e che le illuminate sono le uniche capaci di domarla. il sudiciume che si annida nella pelle delle serve, nelle loro cellule, è la rabbia del mare, la furia dell'aria, la violenza delle montagne, l'indignazione degli alberi, la tristezza del mondo.
vorrei poter analizzare pezzettino per pezzettino tutto il romanzo - che è, secondo me, incredibilmente bello e pregnante, anche più di cadavere squisito (che, chi mi conosce lo sa!, amo moltissimo) - ma non voglio spoilerare troppo la trama.
leggere questo libro è un po' come percorrere un percorso interiore di scoperta e riscoperta insieme alla protagonista, attraverso le parole, il pensiero e la scrittura. il suo diario è, da una parte, testimonianza di un'umanità post-storica, al capolinea di quel lungo processo di "progresso e sviluppo" che non ha tenuto conto dei suoi stessi effetti collaterali; dall'altra è, come dicevo, uno strumento di auto-analisi che permette alla donna che lo scrive di navigare all'interno del suo passato, di riscoprire i suoi traumi, di affrontarli e, così, superarli, riacquistando consapevolezza di sé e, di conseguenza, del sistema perverso della sorellanza.

le donne qui rinchiuse - serve, indegne, elette e illuminate che siano - sono succubi del topos (letterario e non) del fuori dalle mura è pericoloso, non si può uscire.
nel momento in cui questa negazione viene accettata totalmente da chi la subisce e, quindi, naturalizzata come unico modus vivendi possibile, chiunque la impone ottiene di poter imporre qualsiasi corollario a essa: non si esce dalle mura perché fuori è il male, e poiché vi è il male, bisogna espiare e purificarsi (nei modi raccomandati dalla legge o da dio o da qualsiasi padrone si sia accettato in quanto tale), così che il male non possa entrare.
così nasce una fede, una credenza totale e assoluta pur non supportata da alcun tipo di evidenza o di esperienza diretta della sua veridicità, così la sorella superiora e lui piegano menti già compromesse da ogni tipo di trauma, così di spezzano corpi già feriti e violati.

per spiegare la sua teoria sul funzionamento del potere (dello stato) foucault utilizza l'immagine del panopticon, la prigione progettata da jeremy bentham alla fine del '700: un unico guardiano, posto in cima a una torre, ha modo di osservare tutti i prigionieri - le cui celle sono disposte più in basso, in cerchio attorno alla torre - senza che questi sappiano con certezza se sono controllati oppure no. è questo controllo potenziale che instilla in loro la necessità di autocontrollarsi.
allo stesso modo, secondo foucault, il potere mantiene il controllo con pochi mezzi e poche energie semplicemente per il fatto di essere, almeno in potenza, pronto a punire o a premiare.
così, nella casa della sacra sorellanza, le consorelle - serve, indegne o elette che siano - vivono nel perpetuo controllo agito, se non dalla sorella superiora, da una qualche entità spirituale superiore: nessuna delle loro azioni sfugge al controllo, l'espiazione deve essere costante perché costantemente esposta a giudizio. e ogni fallimento altrui diventa uno scalino verso la propria elevazione.
nella casa della sacra sorellanza non ci sono rondini. non distinguiamo le stagioni, in una settimana possiamo viverle tutte e quattro fuse insieme, le une si compenetrano con le altre, si distruggono, il freddo dell'inverno congela una giornata primaverile, il caldo scioglie la pace autunnale, e tutte sono avvolte da un silenzio pungente che dilaga a un ritmo sempre più incalzante. il silenzio degli uccelli che ormai non cantano quasi più.
se nel primo romanzo arrivato in italia, cadavere squisito, la metafora cannibalismo/capitalismo era immediata e sconcertante, qui bazterrica costruisce il suo mondo distopico in modo più sottile, andando avanti e indietro nel tempo e nei ricordi e affidandosi a una sola voce (muta, senza filtri, senza paure che le impediscano di dire).
l'aspetto forse più incredibile di questo romanzo è proprio il modo in cui, man mano la protagonista-narratrice va avanti, cambia il suo modo di scrivere e quindi di pensare, di guardare a quello che la circonda, alle altre e a sé stessa.
la presa di coscienza c'è ed è pienamente visibile per noi che leggiamo, ma forse non lo è altrettanto per lei che scrive. e la traduzione di francesca signorello è riuscita a rendere perfettamente questo cambio di registro.

le indegne è un romanzo piccolino e si fa leggere in poche ore, ma spalanca voragini di riflessioni sul nostro mondo e sui collegamenti tra le tante crisi che stiamo affrontando: quella ecologica, quella sociale, quella economica. guerre, inquinamento, genocidi, distruzione dei diritti umani, misoginia e odio del diverso, chiunque egli sia, tutto partecipa al collasso prossimo, tutto minaccia un'umanità sconfitta da sé stessa, violata, impaurita da un mondo che se la gratta via di dosso.
e, in un futuro così, perdere sé stessə e riconoscersi come prede, non è poi così facile come credere a una nuova fede, a una nuova speranza addestrata con l'inganno e la sofferenza.

lunedì 1 dicembre 2025

gomìtolo 1 ~ novembre 2025


gomìtolo nasce da un insieme di ragioni che, nomen omen, si ingarbugliano tra loro fino a formare un unico malloppo di cose che, così come sono adesso, aggiungono alle mie giornate una punta d'amaro affatto necessaria.

la prima è che a me l'internet di adesso non piace. non mi piacciono i social e più passa il tempo e meno mi piacciono. ormai uso solo instagram e qui non vedo quasi mai quello che voglio vedere, solo un mucchio di pubblicità, video scicquacervello e inutilità varie. il proliferare di spazzatura fatta con l'ai ha peggiorato tutto ulteriormente, e mi passa la voglia di condividere cose su questa che però vorrei condividere. inoltre, so benissimo che quello che fotografo e scrivo viene penalizzato da un algoritmo che predilige contenuti che - in un modo o nell'altro - monetizzano, quindi ogni volta so che sto parlando contro un muro. un muro peraltro molto brutto.

la seconda è che ho poco tempo libero e quel poco lo passo più a leggere/guardare cose che a scrivere (anche perché scrivo già per lavoro, quando stacco vorrei staccare davvero) e così mi ritrovo con un sacco di libri e fumetti (e altre cose) di cui vorrei parlare, ma poche energie per fare delle recensioni soddisfacenti. accumulo pile di volumi che lo-lascio-qui-così-mi-ricordo-di-scriverne e post-it di promemoria attaccati allo specchio, e insieme crescono vaghi sensi di colpa perché non riesco a tenere il passo neppure con me stessa.

la terza ragione è che quando avevo sperimentato la newsletter mi era piaciuta l'idea di raccogliere le cose di un intero mese in un post, però anche substack non riesco a mandarlo giù, mi fa sentire in gabbia e in dovere di dimostrare qualcosa tanto quanto - se non di più di - instagram. avevo iniziato - ormai quasi vent'anni fa - a scrivere di quello che leggevo perché mi piaceva farlo e mi piaceva poi raggiungere qualcunə con cui parlarne.
adesso è tutto un ma quanti mi seguono? quanti like? quanti hanno cliccato il link nella storia? e quanti si sono iscritti? e quanti hanno ricondiviso? numeri su numeri, che diventano ancora più squallidi se inseriti in un certo tipo di dinamiche proprie dei social per cui ci si rimpallano i contenuti sempre e solo tra le solite persone "amiche" che lo fanno per un'"amicizia" che spesso e volentieri si traduce in un do ut des volto a far aumentare i (propri) numeri di cui sopra.
dinamiche di cui sono stufa marcia.

e siccome si torna sempre dove si è stati bene, "tornare" su claccalegge mi è sembrata l'idea migliore. ritagliarmi qui, in questo posto solo mio senza algoritmi e stronzate varie, un post al mese dove cianciare di tutto quello che non trova spazio nei post più classici di questo blog, che ovviamente continueranno a esserci.

quindi gomìtolo sarà l'erede di commenti randomici a letture randomiche, ma con dentro qualcosa di più. non so nemmeno io bene cosa. e andrà online più o meno una volta al mese, ma senza scocciare nessunə via mail, senza chiedere like, condivisioni eccetera.
i commenti, invece, quelli qui sul blog alla vecchia maniera, mi fanno sempre molto piacere. quindi se vi va...

ammetto di non essermi arresa, di sognare che spazi così siano, e saranno, l'ultimo baluardo dell'internet come spazio di condivisione - quella vera - e scoperta lontano dalla melma social e dall'infimo livello dei contenuti generati con l'intelligenza artificiale.
se succederà, io sarò pronta. altrimenti, questo rimarrà un piccolo, minuscolo frammento di resistenza a tutto quello che sta avvelenando sempre di più uno strumento che avrebbe potuto aprire la strada all'utopia e invece è diventato la discarica del peggio dell'espressione umana.

e quindi, iniziamo a sgomitolare un po' di cose di questo novembre grigio, freddo e sfiancante.

ah, non ve l'ho detto ancora: gomìtolo si fa con le foto.
perché è vero che non mi piace instagram, ma è anche vero che mi piace un sacco fare le fotografie.
i due uccellini quasi-uguali-ma-non-troppo sono una fortunata coincidenza per questo libro.

parliamo di libri ~ tra le ultime letture notevoli (che in realtà risale a ottobre ma visto che questa rubrica nasce oggi, va bene ripescare un po' più indietro nel tempo) c'è sicuramente lizzie della cara shirley jackson (e mi sono appena resa conto, con orrore, che qui sul blog non ho mai scritto niente sui suoi libri! argh!).
credo che, insieme a ubik, sia stato il libro più divertente che abbia letto quest'anno. in lizzie shirley jackson più che raccontare una storia, ci invita a prendere posto davanti a un palcoscenico: qui un'anima si infila in un prisma e, tra mal di testa e insonnia, si scompone e diventa una serie di personnagge che si contendono il corpo, il ruolo, lo status e persino le amicizie della povera, originaria, elisabeth.
non credo che esista un romanzo in cui il sono in lotta con me stessə sia mai stato espresso meglio.
e poi, shirley jackson scrive da dio.

la cosa più bella dei minilibri è che te li puoi portare in giro facilmente

ho finalmente trovato il coraggio di iniziare a leggere sempre la valle di nostra signora ursula k. le guin, libro che mi spaventa non tanto per la sua mole ma per il contenuto. ne parlerò più avanti, quando l'avrò finito, ma intanto vi dico qualcosa di questi due minilibri qui.
la mole di sempre la valle non mi spaventa ma sicuro non lo rende agevole da portarsi in giro e da leggere in autobus, e siccome non mi piegherò mai agli ebook, che aborro e continuerò ad aborrire per sempre, ho deciso di alternare la lettura con qualcosa di più maneggevole.

così, in questi giorni ho letto questi due minilibri che aspettavano da millenni sul mio scaffale.
il castello di crowley di elisabeth gaskell mi è piaciuto da matti. l'autrice racconta la storia della famiglia crowley così - ci dice - come le è stata raccontata proprio dal custode di quel castello ormai in rovina, sperduto nelle campagne del sussex. la storia è quella del vecchio crowley, della sua bellissima e svenuturata figlia theresa e della sua nutrice victorine, di origini francesi come la compianta lady crowley. victorine, che ha badato a theresa fin dai suoi primi giorni, ha per la sua diletta un amore che sfocia nell'ossessione, e non c'è un suo solo desiderio che la vecchia nutrice non è disposta a esaudire. espresso o meno che sia. ed è questo amore malato il motore di tutta la vicenda, il perno attorno cui ruota una spirale destinata a sprofondare nei più oscuri recessi dell'animo umano e a trascinare con sé ogni dono del destino.

il rifugio di grazia deledda, invece, ha avuto in sorte la peggior cura possibile dall'editore che l'ha pubblicato. semplicemente: non c'entra quasi nulla con quello che potete leggere sulla quarta di copertina (e, in realtà, è anche più bello e più profondo di come l'hanno presentato).
è, invece, un racconto tutto incentrato sulla dicotomia inconciliabile tra l'amore egoistico, che punta al soddisfacimento di ogni proprio desiderio, e l'amore romantico, che se pure non sempre conduce a una vita felice, appaga quantomeno il bisogno umano di amare ed essere amatə davvero, fosse anche solo per un giorno.
tornando alla sinossi dell'editore, la prima cosa che ho pensato è che abbiano cercato di presentare questo racconto come qualcosa di più leggero e catchy, più vendibile insomma. ed è triste che ogni cosa, anche quella che non è necessariamente pensata per finire sul booktok (fenomeno di cui riconosco i pregi, tra i quali quello innegabile di aver fatto scoprire i libri a un sacco di ragazzə, ma anche i difetti, e cioè l'aver contribuito a un appiattimento brutale dell'offerta editoriale negli ultimi anni) debba essere banalizzata solo per poter acchiappare qualche lettorə distrattə in più.
almeno chi li fa, i libri, dovrebbe trattarli con un po' più di rispetto.

prima o poi doveva succedere - in foto solo dal volume 14 in poi perché i primi tredici al momento stanno giù a palermo
(e probabilmente ci resteranno, per ovvi motivi di spazio)

cambiando genere di letture, in queste settimane ho iniziato il recuperone di one piece. non averlo mai letto (e non aver mai visto l'anime) era una lacuna gigantesca e vergognosa nella mia seppur mediocre cultura fumettistica, ma soprattutto ammetto che ad accendere la scintilla del desiderio di leggerlo è stato vedere sventolare la bandiera con il jolly roger di monkey d. rufy in diverse manifestazioni.
non essendo una grandissima amante delle storie d'avventura e di viaggio, non avevo mai pensato che mi sarei interessata a one piece, ma allo stesso tempo ho un debole per i pirati e per quello che hanno sempre significato: la guerra dichiarata ai poteri costituiti, allo status quo, all'oppressione dei più forti sui più deboli, alle prepotenze mascherate da leggi.
e più leggevo che moltissimə fan del manga dichiaravano di apprezzarlo proprio perché incarna questi principi, più mi convincevo che dovevo recuperarlo.

pirati che ci ricordano che non esistono poteri buoni

ovviamente, parlare della storia non avrebbe senso - soprattutto adesso che sono indietro di svariati lustri rispetto a chi la segue fin dal principio - ma volevo dire due cose: la prima è che one piece è un manga divertentissimo e scritto davvero bene, uno di quelli che ha dei personaggi di cui ti innamori alla prima vignetta e un ritmo che ti cattura e ti tiene incollatə alle pagine volumetto dopo volumetto (infatti ne ho circa altri venti da leggere oltre questi qui in foto, bisogna tenere una buona scorta in casa).
e la seconda è che davvero c'è tanta bella roba dentro: non soltanto l'accettazione entusiastica dellə diversə e dellə emarginatə, ma soprattutto c'è l'idea che si possa lottare con ogni mezzo per i propri sogni e i proprio ideali contro l'autorità, l'ingiustizia, la corruzione, la prepotenza, il potere in ogni sua declinazione.

fino ad adesso mi hai convinta, caro eiichiro oda. non vedo l'ora di andare avanti.

un po' di ultime letture e i miei pupazzi bellissimi

non parlo quasi mai delle serie che seguo, però in questo spazio c'è modo di rimediare. qui, in realtà, c'è anche un primo numero, the fragrant flower blooms with dignity (che è un titolo un po' di merda, diciamolo), e comincio proprio da questo qui. mi sono sciroppata tutta la prima stagione dell'anime con un entusiasmo che si è andato sempre più afflosciando man mano che andavo avanti. mi sono detta che era colpa dei ritmi propri di una trasposizione animata - francamente lentissima - e che però la storia di fondo meritava una seconda possibilità. the fragrant flower blooms with dignity inizia un po' come una versione più tenerina di toradora (mammamia quanto mi piace toradora!), lui, rintaro, è praticamente uguale a ryuji, stessa aria da cattivone e stesso cuore d'oro. lei, kaoruku, è una taiga bruna a cui manca tutto quello che rende taiga adorabile, ma resta comunque carina. bonus: si piacciono da subito e non cercano di nasconderlo troppo. almeno, ci siamo evitatə tutta l'odiosa manfrina del non posso accettare i miei sentimenti nemmeno davanti a me stessə. mi era piaciuta moltissimo anche l'attenzione allə personaggə secondariə, non fosse per subaru e il suo mega trauma, in realtà del tutto inconsistente, buono solo a dimostrarsi odiosa per buona parte della prima stagione dell'anime.
insomma, pregi e difetti che, nel momento in cui ci si libera dall'obbligo di dover seguire i tempi insopportabilmente lunghi dell'anime, si tengono abbastanza in equilibrio da voler dare una possibilità al manga. vedremo come va avanti.

pensavo che non avrei mai visto il numero 9 di hirayasumi e invece, eccolo qui. non so perché, ero convinta che la serie fosse in hiatus... hirayasumi è uno di quei manga in cui grossomodo non succede nulla, ma la quotidianità dellə personaggə è raccontata così bene che ti fa pensare a quante cose memorabili ci accadano continuamente senza che ce ne rendiamo conto. e a me, che sotto sotto sono un cuoricino di burro, questo genere di storie mi emoziona.
a volte penso che gli slice of life siano il tipo di storie perfette per chi vuole scappare dalla solitudine, perché aprono a un mondo in cui ci si può immergere completamente, un mondo fatto di vite semplici e tremendamente vere. forse è un po' triste o forse è soltanto straordinariamente bello. decidete voi.

natsume degli spiriti è ormai incagliato da secoli lontano dalla sua trama verticale, quella legata al libro dei nomi, alla nonna reiko, al rapporto tra natsume e madara/nyanko-sensei, e continua a riavvolgersi su sé stesso in una sfilza di episodi sempre molto carini e sempre molto dimenticabili, tra mille personaggə che continuano a recitare il loro ruolo ma che non approfondiamo mai davvero. in ogni caso, nonostante io sia perfettamente consapevole di tutti i suoi difetti, resta una delle mie serie preferite, soprattutto negli episodi che mettono in scena il difficile rapporto che si viene a creare tra yokai e esseri umani, creature diverse nel profondo, che vivono in due mondi paralleli che solo in alcuni punti si sfiorano e che, comunque, riescono a creare dei legami così profondi da essere struggenti - per chi li vive e per chi li legge.
da un certo punto di vista, spero che la sua serializzazione continui ancora a lungo, da un altro vorrei proprio che yuki midorikawa la smettesse di divagare e tornasse a focalizzarsi su quello che era il nucleo principale della storia.

scattino in alto per kaiju girl caramelise che con questo ottavo volume, invece, riesce a portare avanti la storia in un modo che, all'inizio, non mi sarei mai aspettata. spica aoki è riuscita a presentarci una storia in cui una ragazza molto carina si trasformava in un grosso lucertolone in stile gozilla quando non riusciva a tenere a bada le emozioni, ed è finita per mettere in scena una storia fantasy fatta di isole sconosciute e creature sovrumane accanto a dellə personaggə che scardinano completamente quella rigida gerarchia di sentimenti a cui lo shoujo manga ci aveva abituatə - amore romantico uber alles!
il tono leggero e lə personaggə a volte un po' assurdə - un circo di non conformità assolutamente meraviglioso! - non riescono a smorzare la sensazione di vedere cuoricini rosa luminosi tra le pagine e a me tutto questo piace da impazzire. e mi piace anche non riuscire assolutamente a immaginare cosa succederà nei prossimi capitoli.

si torna sempre dove si è stati bene (cioè nei libri di turconi&radice)

per lucca c&g è uscito ávila, il nuovo fumetto della coppia di autorə del mio cuore, teresa radice e stefano turconi, e ho avuto modo di recuperarlo a una presentazione qui a bologna (a cui sono arrivata tardissimo - grazie per questi cantieri o v u n q u e che trasformano un tempo di percorrenza di 15 minuti in un viaggio di un'ora e mezza, è bellissimo, soprattutto la mattina per andare a lavoro) e di farmelo anche dedicare (segue foto).
ávila è un po' una classica storia di stregoneria: donne troppo colte, intelligenti e meravigliose per essere sopportate dagli uomini (soprattutto quelli di chiesa, strana coincidenza che torna spesso in racconti anche diversi) che si ritrovano a lottare tutta la vita semplicemente per poter essere sé stesse e per stare accanto a chi amano. separata da piccolissima da sua madre, ávila passa tutta l'adolescenza a cercarla, in compagnia di un personaggio decisamente bizzarro che è (quasi) sempre con lei.
viaggi, incontri, coincidenze, racconti nel racconto, il meglio e il peggio di quello che gli esseri umani possono essere e, per non farci mancare nulla, anche qualche meraviglioso riferimento visivo a opere d'arte dello stesso periodo storico (alzi la mano chi, a un certo punto, ha urlato "la lattaia!").

come ho detto, io ho un debole per turconi&radice (sul blog trovate degli articoli su viola giramondo, il porto proibito, orlando curioso vol. 1 e 2, non stancarti di andare, pippo reporter, tosca dei boschi, la terra, il cielo, i corvi, le ragazze del pillar vol. 1 e 2) e per il modo in cui raccontano e disegnano le loro storie, per lə personaggə che creano - che hanno sempre un po' quel retrogusto "disney" che non saprei definire in altro modo. sono storie che mi danno emozioni simili a quelle che si provano a guardare le foglie illuminate dal sole, per intenderci.
unica cosa che mi ha un po' fatto storcere il naso con ávila è stato il finale (spoiler - se volete leggere tocca evidenziare il testo - ma perché le mamme più buone e belle e dolci e affettuose devono morire? e perché devono farlo proprio quando riescono a trovare la felicità e a tornare con chi amano? va bene l'influsso disney, però a volte anche meno, un lieto fine totale qui sarebbe stato perfetto)

mi emoziona sempre un sacco guardare la gente - brava - che disegna e che con qualche movimento di penna, così preciso e sicuro, riesce a
far nascere dal nulla una cosa così bella (sì, ovvio che è anche invidia)

tra le ultime letture, poi, c'è stato l'ultimo numero di fangirl. non mi voglio dilungare troppo perché il finale mi è piaciuto ma avrei voluto che fosse un po' meno aperto, che andasse un pelino più avanti. perché immagino che poi tutto vada per il meglio, però oltre che immaginarlo, avrei voluto leggerlo. adesso mi tocca assolutamente leggere il libro, che mi aspetta pazientemente da quando ho letto il primo volume dell'adattamento a fumetti...


sono riuscita finalmente a recuperare paperino e la regina fuori tempo, una raccolta con le storie più recenti - scritte da bruno enna e disegnate da giada perissinotto - dedicate a paperino e reginella, credo l'unica ship per me davvero importante, che mi porto dentro da sempre (sì, mi spiace, a me paperina sta antipatica, ho sempre fatto il tifo per la sovrana di pacificus). in questa storia paperino e reginella sembrano incontrarsi per l'ultima volta - oddio, spero di no! - e tagliare definitivamente il legame che lega l'uno all'altra, sopravvissuto ad avventure, viaggi nello spazio e nel tempo e a ogni sorta di condizionamento psichico e cancellazione della memoria.
i disegni di giada perissimotto sono meravigliosi e reginella rivisitata in questo stile a metà strada tra disney e manga è, se possibile, ancora più adorabile del solito. l'unica critica è che si parla del legame tra lei e paperino come di "amicizia" e "affetto", quando è chiaro pure alle pietre che la loro è la storia d'amore più bella e drammatica di tutte quelle mai apparse su topolino e altre testate affini.
odierò sempre e per sempre la politica del per carità di dio, non turbiamo lə bambinə con la storia di unə personaggiə che si innamora di qualcunə che non è lə suə fidanzatə di sempre.
sigh. .

ho bisogno di un poster con questa illustrazione, è troppo bella ♥

e, per chiudere con i fumetti, vi segnalo l'intervista a štěpánka jislová che ho fatto per gli audaci. vi consiglio di leggerla perché stretta al cuore è un fumetto davvero bellissimo e profondo. mentre lo leggevo, mi sono ritrovata così tante volte in tante frasi che mi è venuto voglia di abbracciarlo. o lanciarlo contro un muro e poi raccoglierlo a abbracciarlo.


intanto, continuo il mio rewatch - che va un po' a rilento perché il tempo libero è sempre meno di quello che vorrei - di my little pony ~ friendship is magic. sono arrivata all'inizio della terza stagione e lo amo esattamente tanto quanto l'ho amato la prima volta che l'ho visto.
in realtà non sono mai riuscita ad arrivare alla fine, mi sono fermata (non ricordo neppure perché) da qualche parte durante la sesta stagione.

e sto continuando a guardare la seconda stagione di fionna and cake, che adoro al punto tale che ho messo la sigla come suoneria del telefono (se mi chiamate e non rispondo subito è perché mi piace troppo per interromperla per rispondere). e mi piace un sacco anche non poter bingewatcharla, che si traduce in un non dover bingewatcharla. come siamo riusciti a iniziare a pensare persino il guardare le serie tv come qualcosa che deve essere performativo?

l'inizio di uno dei momenti più felici della settimana

altre due cose, forse molto banali, ma ci tenevo a scriverle, perché per quanto piccolo sia lo spazio a cui affidiamo le nostre parole, e per quanto piccolə sia chi le scrive, è importante evitare che quello che pensiamo venga fagocitato da una realtà sempre più incattivita e distopica (e penso anche che sia meglio scriverlo dove gli algoritmi e le censure dei social possano fare poco).

l'8 ottobre scorso israele ha accettato formalmente la richiesta di cessate il fuoco ma da allora a oggi ha attaccato quasi 500 volte, tra bombardamenti, droni e cecchini (a gaza, ma anche in cisgiordania e in libano), ha ucciso più di trecento persone - tra cui, come sempre, moltissimə bambinə - ma è riuscito nel suo intento di silenziare ancora di più il genocidio in atto ormai da più di due anni. i conteggi peggiori - e probabilmente più verosimili - parlano di centinaia di migliaia di morti, mentre migliaia di persone sono scomparse, anche perché intere famiglie sono state letteralmente cancellate e non resta neppure a denunciare le uccisioni.
e allora, almeno questo no. se non possiamo fare altro, almeno scriviamo ovunque quello che sta succedendo. non restiamo in silenzio mentre ci chiedono di far finta di nulla, mentre anzi costringono una città a vivere una giornata di assedio militare - come è successo qui a bologna per una partita di basket (!) - per compiacere questi assassini maledetti, mentre fanno di tutto perché i loro uffici stampa facciano girare notizie inutili solo per distrarci.
non distraiamoci. non giriamoci dall'altra parte.

foto di qualche manifestazione fa

la seconda cosa è che il 25 novembre è stata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, tutto un fiorire di scarpe e sciarpe e altra roba rossa, e bei (spesso anche bruttissimi) discorsi. sappiamo come il governo sta gestendo questo problema epocale - cioè, non sta gestendo niente, perché ai fascisti la violenza piace troppo per poterla arginare - ma volevo concentrarmi su una cosa: le donne disabili non esistono nemmeno simbolicamente in queste iniziative. tacchi alti (rossi) e scale (rosse) raccontano solo un tipo di corpo, mentre tutti gli altri vengono ancora una volta cancellati, rimossi, invisibilizzati. eppure, le donne disabili sono più esposte al rischio di violenza - e sono più spesso vittime di violenza nei fatti. sono meno libere di denunciare e meno credute quando lo fanno.
non facciamoci insegnare dagli spazi istituzionali come dobbiamo raccontare le lotte perché a loro non importa nulla. lasciamo in pace quella povera vernice scarlatta e iniziamo a sensibilizzare davvero sulla violenza che tutte (questa volta sì, ha senso scriverlo) le donne subiscono.

olivia e ruffola insieme

e per chiudere con un tono un po' meno cupo, vi lascio una foto arrivata da casa per immortalare un momento agognato da più di due anni: i miei amori finalmente una accanto all'altra! ♥ ♥ ♥ è una fotografia così bella che non potevo non pubblicarla anche qui!

è venuto fuori un papiro ma non mi sento di dovermi scusare, anzi. novembre è sempre un mese infinito, quest'anno mi è sembrato ancora più lungo e pesante (e, ancora, non riesco ad abituarmi all'inverno qui a bologna. il freddo mi uccide e, dopo un po', non vedere il mare neppure per un momento né da lontano, fa mancare l'aria). e quindi avevo bisogno di mettere giù da qualche parte almeno le cose più belle (e quelle più importanti, almeno un po').

se siete arrivatə fino a qui - anche saltellando da un paragrafo all'altro - grazie! avete passato del tempo su internet e non su una piattaforma social, l'universo è un po' migliore anche per merito vostro (e io sono molto felice). se vogliamo alzare ancora un po' di più l'asticella, lasciatemi un commento qui sotto, anche solo una domanda, un consiglio, un "ciao clacca!", un cuoricino, quello che vi pare.
tiriamoci fuori tuttə dalla prigione social, ricominciamo a chiacchierare delle cose che ci piacciono - e se non possiamo farlo insieme davanti a un tè, facciamolo fuori dal peggio dell'online.

ciao, ci si rilegge alla prossima recensione e al prossimo gomìtolo!

mercoledì 19 novembre 2025

organica

perché dovevamo occupare il tempo parlando di cose brutte, se non ci riguardavano?


vivere da sola, per una giovane donna con un figlio piccolo, è difficile. ma è ancora più difficile se la città in cui questa giovane donna vive è una di quelle tenute sotto controllo dal go e dalla jester.
il go è l'ente governativo - ente non a caso: non ci sono facce né nomi, nessuna parvenza di umanità, solo un' informe entità lontana dalla gente comune che osserva, controlla, stabilisce norme e punisce chi le vìola. la jester, invece, è nulla più che un'agenzia di marketing.
il go ordina di produrre e consumare, e controlla cosaquantocome viene prodotto e consumato. la jester instilla desideri e bisogni.

la giovane donna con il figlio piccolo, invece, si chiama ruth.
si è emancipata da poco più di un anno, vive da sola e deve riuscire a mantenere sé stessa e suo figlio, il piccolo sweet. perché qui, nella città senza nome, nessunə deve contare sull'aiuto dellə altrə una volta superati i sedici anni. bisogna seguire il percorso che il go ha deciso per ognunə - quali studi, quale carriera - sposarsi, magari, e mettere al mondo lə figliə, assicurandosi di poterlə mantenere fino a che, a loro volta, non possano emanciparsi.
non sono ammessi fallimenti, non è tollerata l'incapacità: lavorare-produrre-acquistare-consumare. fino alla pensione.

la metafora è così chiara che è superfluo ogni commento, ma in organica il concetto di se usi gratis un prodotto è perché il prodotto sei tu si fa drasticamente estremo: il prodotto da usare gratis, qui, non è altro che il semplice fatto di essere al mondo. e l'essere trasformatə in prodotto non è un'iperbole ma la reale sostanza delle cose. in organica, i corpi diventano letteralmente moneta.

la lunga scena in cui ruth si procura il materiale organico che venderà per acquistare il latte in polvere per il piccolo sweet - scena su cui si innestano i racconti collaterali di questa storia, che ampliano il nostro orizzonte sulla città senza nome - è ansiogena e disperata, resa ancora più atroce dal latte che sgorga più e più volte dai suoi seni e che lei si rifiuta di fare bere al figlio perché considerato poco più che un'insignificante brodaglia, il succo marcio di un corpo ammalato da una vita orrenda, che si trascina nella vergogna e nell'avvilimento.
ma, forse, l'unica scintilla di speranza che marinelli ci concede si accende all'ombra dei nomi dellə personaggə: ruth, diminutivo di ruthless, spietata, riversa invece tutta la sua pietà, la sua compassione e il suo amore sul piccolo sweet, l'unico nel libro ad avere un nome in cui riecheggia uno di quei sentimenti ormai persi dal mondo in cui è nato.

l'ipercapitalismo nella visione di marinelli è portato alle sue estreme conseguenze fino a far diventare la solidarietà, l'improduttività e il fallimento - anche solo momentaneo - crimini da punire con la più alta delle pene. e se sembra assurdo, basta dare uno sguardo alla cronaca per rendersi conto di quanto poco tutto ciò si discosti da quello che abbiamo imparato ad accettare.

non è un caso se il genere distopico è quello attraverso il quale riusciamo più facilmente a immaginare il nostro futuro. non è un caso e non è affatto rincuorante che le distopie degli ultimi decenni sono sempre così tanto plausibili, sempre così tanto simili alla realtà che viviamo da essere poco più che metafore crudeli della vita di ogni giorno. non si tratta più di dar forma a paure lontane ma di lucidare lo specchio su cui si riflette l'orrore quotidiano che - inspiegabilmente - moltə non riescono a vedere.

e se organica non sconvolge come dovrebbe, è solo perché abbiamo ormai fatto esperienza di così tante distopie in cui l'umanità è completamente piegata al potere fino al punto di annullarsi, che poco resta ormai a sorprenderci. e la stessa ruth sembra poco sorpresa, o meglio, fin troppo rassegnata: non c'è alcun processo di presa di consapevolezza né di lotta contro il sistema perverso in cui è imprigionata, se non un brevissimo sfogo in cui emerge la sua convinzione che non lei ma solo qualcuno con più potere di lei avrebbe potuto cambiare le cose. in lei non rimane nessun accenno all'umanità perduta, neppure un confuso sospetto di come le cose avrebbero dovuto essere. né arriva un pietoso proiettile alla schiena a salvarla dall'ineluttabilità della sua condizione.

il mondo descritto da laura marinelli in organica non è soltanto una cupa fantasia, ma un'increspatura attraverso cui osservare la deriva delle nostre strutture culturali, barcollanti sotto il peso dei nostri errori. un mondo orrorifico in cui materia ed essenza umane sono pervertite oltre i limiti che, ad oggi, abbiamo imparato ad accettare.

venerdì 14 novembre 2025

luna fredda su babylon

il fiume styx, per la lentezza della corrente e la frequenza di banchi di sabbia, pozze stagnanti lungo le sponde e rami morti, è infestato dalle zanzare, sanguisughe e serpenti. tutta quest'area della contea di escambia è scarsamente popolata, a maggior ragione lungo i fiumi, dove non vive quasi nessuno. per costruire, la gente si sposta sui terreni più elevati, lontano dagli insetti e dalle frequenti esondazioni primaverili. sebbene lo styx si snodi per oltre quattro chilometri, soltanto quattro persone abitano sulle sue sponde. una di queste è un'anziana nera la cui baracca si trova pericolosamente vicina alla confluenza del perdido. la donna è sorda e pazza.
gli altri tre stanno appena oltre l'unico ponte sul fiume. la vecchia evelyn larkin e i suoi nipoti, jerry e margaret, che vivono lì per i mirtilli.

dopo la saga di blackwater, gli aghi d'oro e katie, era ovvio che il mio hype per un nuovo romanzo di michael mcdowell sarebbe stato enorme.
ed è per tutto questo hype che mi duole ammettere che se con blackwater mi ero innamorata e se gli aghi d'oro mi aveva convinta tantissimo, già kate mi aveva entusiasmata un puntino di meno e luna fredda su babylon non ha fatto rialzare l'asticella.

quella di luna fredda su babylon è una storia di omicidi brutali, di avidità e di vendetta - e in questo ricorda un po' katie - e di fantasmi, mentre l'ambientazione riporta alla mente blackwater: le sponde di un fiume - lo styx, nome decisamente evocativo - il suo letto fangoso e le sue acque a tratti tumultuose e inquietanti.
ad aggrapparsi agli argini del fiume è una cittadina di nome babylon, molto meno gloriosa della sua omonima di biblica memoria. una cittadina di periferia come tante altre, dove sotto l'apparente tranquillità quotidiana, serpeggiano odi, invidie e risentimenti.

siamo all'inizio degli anni '80 e la quiete di babylon viene squarciata dalla scomparsa di una ragazzina, ritrovata cadavere dopo pochi giorni. un omicidio brutale e insensato che è solo il primo di un crescendo di violenza. attorno a cui si muovono, da un lato, la famiglia larkin - proprietari di una piantagione di mirtilli il cui sfruttamento riesce a malapena a garantirgli una vita dignitosa - e dall'altro i redfield, il vecchio padre, ormai disabile, tanto bisognoso di attenzioni quanto severo, e i suoi due figli, due poco di buono arroganti e desiderosi di mettere le mani sul patrimonio di famiglia.

senza spoilerarvi nulla della trama, la storia prende una piega più che auspicabile e le identità di vittime e carnefice sono rivelate più o meno immediatamente - ma si capisce tutto molto prima - così come il movente. insomma, quello di mcdowell non è un giallo in cui bisogna collegare i fili tra i diversi indizi e arrivare a una qualche soluzione, è a pieno titolo un horror in cui a farla da padrone è la brutalità dei fatti, la miseria dietro le motivazioni che portano a quei fatti e, soprattutto, l'atmosfera sovrannaturale che avvolge ogni cosa. perché - a differenza di quanto succedeva ne gli aghi d'oro o in katie - a cercare vendetta non sono più lə familiarə offesi dalle uccisioni dellə loro carə ma le vittime stesse, o meglio, i loro fantasmi.

sono proprio loro a mettere effettivamente in moto gli eventi e noi lettorə ci troviamo a osservarli da una prospettiva privilegiata rispetto allə personaggə umanə del racconto ma solo fino a un certo punto: sappiamo che, nella babylon di mcdowell, i fantasmi esistono e che partecipano attivamente ai meccanismi della realtà, che sono causa di svariati effetti (ed effetto di una causa sola: la violenza efferata che da persone li ha fatti diventare fantasmi, appunto) e che sono mossi dal desiderio di vendicarsi, ma il loro mondo interiore - ammesso che ce ne sia uno - ci è completamente precluso.
sappiamo, insomma, che esiste una dimensione sovrannaturale, ma non riusciamo a conoscerla veramente. come vivi, per quanto onniscienti, noi lettorə rimaniamo tagliati fuori dalle verità che vanno oltre l'orizzonte delle nostre esperienze.

le figure spettrali e vendicative di babylon sembrano avere una volontà ferrea e degli obiettivi molto ben definiti ma non parlano e, per quello che ne sappiamo, non pensano. soffrono ancora? sono consapevoli? impossibile dare una risposta, restano per noi inconoscibili. il loro aspetto tradisce il destino della parte materiale di ciò che erano ma sono, allo stesso tempo, incorporei e scollegati dalle leggi della fisica.
ed è questa loro natura ambivalente, muta e impossibile da comprendere che li rende (almeno un po') terrificanti, tanto per chi li incontra tra le pagine del racconto, quanto per noi.

se però in blackwater l'aspetto sovrannaturale della storia mi aveva colpita, qui mi ha lasciata poco convinta, come se mancasse qualcosa. più che paura mi hanno fatto provare repulsione e pena e qualsiasi vendetta riescano a ottenere alla fine non riesce a riequilibrare nulla. erano, e restano per tutto il tempo, vittime, quasi che non ci fosse davvero nessuna possibilità di riscatto né di giustizia per loro, quasi che ogni traccia del sé che erano fosse stata annientata lasciando spazio solo al bisogno di vendicarsi.

insomma, luna fredda su babylon è un libro sicuramente unputdownable, come tutti quelli di michael mcdowell, eppure tra tutti quelli pubblicati fino ad adesso, è quello più tiepidino, che (imho) convince ed emoziona di meno. 

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